È il giorno del chiaroscuro. Sulla cima del Tabor s’accende un’iradiddio di luce, tanto che i discepoli stramazzano a terra: «Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce (…) I discepoli caddero con la faccia a terra» (Mt 17,1.5). La festa della Trasfigurazione (6 agosto) è luce che esagera, sin quasi ad intontire i sensi dell’umano: è luce-per-la-vita.
Anche ad Hiroshima, il 6 agosto 1945, fu giorno di luce: il chiarore che apparve allo sgancio della bomba atomica sulla città lasciò come traccia di sé un bagliore che istupidì i sensi, rendendoli ustionati per lunghe generazioni. L’eccedenza di luminosità è la stessa, la sorgente da cui irradia è agli antipodi, roba da acerrimi nemici: «L’uomo che compie gli atti di Dio, spaventa. Ma quando Iddio si manifesta, non vi è più da temere: basta adorare e amare» (F. Mauriac). La luce sul Tabor attesta l’affidabilità del Cristo, la tenebra ad Hiroshima certifica l’inaffidabilità di Lucifero, il “dio del letame”: quello che promette assai meno dell’avversario Cristo avvalendosi, però, di tempi più rapidi: «La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta» (Gv 1,5). Parola del Signore.
La festa della Trasfigurazione è la festa della forma che si trasforma, è rivelazione che, in un istante, annuncia d’essere una rivoluzione. La rivoluzione di Dio: agli occhi svigoriti dei discepoli, il povero amico Ebreo rassicura loro d’essere Dio. L’anniversario di Hiroshima è memoria della forma che si sforma, dell’uomo che s’arrischia di ordinare il mondo senza la compagnia di Dio.
Tra la prima e la seconda, al netto delle perdite di vite, a vincere sarà la prima. È legge di natura: le tenebre non esistono, a esistere è la mancanza di luce. È legge celeste: nemmeno l’Inferno esiste, a esistere è il rifiuto del Paradiso, il farsi beffe dell’amore offerto. Mica un gioco da bambini luce-contro-tenebre: la luce fu il pensiero primordiale di Dio, la chiarezza necessaria perchè tutto fosse fatto alla luce del sole: «Sia la luce! E la luce fu» (Gen 1,2). La tenebra fu l’imbroglio di Satana, la necessità per la sua baraonda di confusione: «Non morirete affatto! Anzi» (3,4). La luce è per la vita, la sua mancanza è un apparecchio sanguinante della ferocia umana. D’allora, gli stessi abbinamenti d’allora: Lui e l’altro, luce e tenebre, io e Te. Oppure io in compagnia dell’altro: il cafone dell’Eden.
Nella storia, l’unico divieto è rimasta la fuga, l’essere disertori. Il Cielo, sotto qualsiasi piramide e faraone, chiede solo d’essere desti: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli: si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola, passerà a servirli» (Lc 12,32-48). È il Dio della confidenza e dell’amicizia, il Dio per gli uomini: oggi offre loro il desinare, dopodomani sciacquerà loro i piedi. Servire gli uomini è il regno di Dio, servirsi degli uomini è il regno di Satana. La triste sorte che sarà del servo secondo, l’infedele non capace d’attesa: «Il mio padrone tarda a venire». Dio, a fidarsi di Satana, è sempre in ritardo: l’andatura-da-Dio è la lentezza che rende possibile la marcia del popolo. Che infastidisce la corsa mentecatta del singolo.
“Ho un grande problema” pensano i seguaci di quel reuccio ch’è Satana, il dio-mancato. “Ho un grande Dio” rispondono quegli altri folli, quelli che Iddio l’han braccato in un giorno pur triste. Anche d’allegrezza. Il Cielo che ci ospita è il medesimo per entrambi, l’anniversario pure è il 6 agosto: nello stesso campo, sta maturando il grano e la zizzania. “Vietato cogliere qualsiasi spiga” ha scritto il contadino sullo spaventapasseri di stoffa. A variare è la destinazione d’uso della libertà: «Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore». Sul Tabor, come a Hiroshima, Dio ha lasciato le chiavi di casa all’uomo. Nel tempo dell’attesa, c’è una casa da custodire: «Si tratta di creare in noi uno stato d’inquietudine e di veglia» (F. Mauriac). Per custodirla occorre aver ricevuto una grande grazia: un anticipo di bellezza, una sorta di grazia della lucidità.