La recente edizione del Meeting di Rimini ha ruotato attorno a questa frase: “Tu sei un bene per me”, frase che va direttamente a confliggere con quella celebre di Jean-Paul Sartre, per parecchio tempo ritenuta lucidamente descrittiva della condizione umana: “L’inferno sono gli altri”. L’alternativa tra queste due posizioni non si risolve facendo la conta di quanti “tu” percepisco come “bene” e mettendo sul secondo piatto della bilancia quanti “altri” mi fanno soffrire le pene dell’inferno. Imboccare questa strada costringerebbe, tra l’altro, a constatare che ogni “tu” ed ogni “altro” di cui abbiamo esperienza sono stati di volta in volta “bene” e “inferno” (oltre, ovviamente, tante cose intermedie). Siccome poi la proporzione è spesso vicina al cinquanta per cento, si finisce per giudicare in base all’impressione suscitata dall’ultima cosa successa; e allora può capitare di vedere una giovane mamma che si sbarazzerebbe volentieri dei figli un tempo desideratissimi e ora fastidiosamente ostacolanti il proprio — presunto — spazio di libertà. Non mi pare una gran soluzione neanche il rassegnarsi ed ammettere che, essendo l’uomo un “animale sociale”, con gli altri bisogna comunque farci i conti e tanto vale guardare le cose dal lato del mezzo bicchiere pieno e ottimisticamente valorizzare come bene chi so che potrebbe anche essermi inferno.
In questa prospettiva, la frase del Meeting rappresenterebbe l’invito ad una pura opzione di generosità e bontà che sarebbe — non si a bene perché — appannaggio particolare dei cristiani. La fede, in questo caso, servirebbe a dotarci di un bel paio di occhialoni rosa atti ad impedire — ovviamente a fin di bene — di guardare come realisticamente sono gli altri. Due giovani sposi — e non credo che ci sia momento (a parte la procreazione) in cui il tema di che cosa sia l’altro per me è così acuto come quando ad uno di questi altri decido di legare per sempre la mia esistenza — hanno riportato sul libretto di cerimonia una frase di Clive Staples Lewis; non mi hanno saputo dare il riferimento esatto e forse non è neppure di Lewis ma di qualcuno che ha scritto su di lui. Comunque, al di là delle preoccupazioni filologiche, la frase parla di un uomo che si sposa, cioè accetta che nella sua intimità entri una donna. Ciò l’ha portato a non poter più pensare a se stesso a prescindere da quell’altra, anche per il solo fatto che in tutti gli spazi prima vissuti personalmente ora abita anche lei.
Questo — conclude Lewis o chi per lui — ha portato alla scoperta che la propria stessa esistenza, il proprio io non è concepibile senza un altro o, meglio, senza quell’Altro cui l’altro rinvia. Rinvia in modo per definizione passeggero, ma non per questo insignificante. Anzi supremamente interessante perché l’altro — qualsiasi e con tutte le gradazioni immaginabili — si pone nell’unico spazio in cui io vivo — il presente — e lì mi indica il rapporto eterno che costituisce me, l’altro e quel nostro rapporto. Altrimenti resta la triste possibilità descritta da Shakespeare nel suo ottavo sonetto: “Sii solo, e non sarai nessuno”.