“Voi non avete perso, perché queste non sono state delle elezioni”, ha commentato Aleksej Naval’nyj rivolgendosi all’opposizione, all’indomani delle votazioni dei deputati alla Duma.
Una frase tranchante. Ma quanto vera? Davvero non è successo niente e tutto è stato inutile?
Da una parte i brogli ci sono stati, come ci si aspettava; e, anche se forse sono stati meno della tornata precedente, sono abbastanza ben documentati dai filmati presi di straforo dai cittadini, come si vede a questo indirizzo oppure a quest’altro.
Dall’altra c’è stata la scarsissima affluenza alle urne, un 47,8 per cento che è un record negativo (contro il 63,7 per cento del 2007). E c’è un’analisi di Sergej Špil’kin che, studiando l’andamento percentuale delle affluenze locali, ipotizza che l’affluenza reale sia stata del 36,5 per cento, e che la differenza dell’11 per cento sia costituita da schede “aggiunte” dagli scrutatori in corso d’opera.
I due fenomeni dei brogli e dell’assenteismo sono collegati ma in parte sono anche indipendenti. Infatti è possibile che la bassa affluenza sia stata motivata dalla certezza che le elezioni non sarebbero state oneste ma, prima di ogni altra cosa, nasce da una generale indifferenza per quello che fa la politica. La natura di questa indifferenza è la questione più interessante oggi.
Il presidente, dal suo quartier generale, ha commentato: “La gente ha espresso la sua posizione civica”; il giudizio ha una sua verità, anche se la si può intendere in senso positivo, come fa lui, o in senso negativo, come segno di passività.
E da questo, qualcuno ha concluso che la società russa si è stufata della democrazia, un valore per la quale non ha mai combattuto né sofferto, ma ha semplicemente ricevuto come effetto collaterale dello sfascio del comunismo. Questo solleverebbe almeno in parte il governo dalla piena responsabilità della situazione politica odierna: non è stato Putin che ha rapinato la democrazia al paese, scrive il commentatore Valerij Solovej, è anche il paese che ha svenduto volentieri e senza opporsi la libertà politica in cambio della stabilità e del benessere. I russi volevano semplicemente vivere meglio e il presidente glielo ha promesso, e in parte dato. Gli oppositori, invece, continuano a buttare ogni colpa sul presidente, ma, commenta Solovej: “La storia russa degli ultimi 15 anni non ci mostra una gran lotta fra libertà e tirannia”.
Ne consegue, dice Andrej Desnickij, che “Esiste un’enorme massa inerziale che in pratica nessuno è riuscito a tirarsi dietro”, né Russia Unita né l’opposizione. Del resto lo si può constatare dati ufficiali alla mano; non bisogna infatti dimenticare che, nel calo generale e pur restando in testa, ha perso punti anche il partito di governo; inoltre, se il 54,8 per cento del 47,8, ossia il 27 per cento della popolazione sostiene Russia Unita, vuol dire che il famoso 86 per cento pro Putin è una fiaba. Questo, hanno osservato alcuni oppositori, è il dato di fatto col quale fare i conti, e sul quale costruire.
Se il regime ha agito liberamente in una situazione di vuoto politico e in mancanza di resistenza, l’opposizione non ha nulla da rimproverarsi? Qualcuno ha cominciato a osservare che alla lunga non può pagare quella sarcastica distanza dall’uomo medio passivo e credulone, che ha caratterizzato sin qui molti discorsi dei settori antigovernativi; un certo spirito elitario ha finito per non attrarre e non interessare più nessuno, allontanando molti dalla politica: non è essendo “contro” che si costruisce un’alternativa politica; dov’è il positivo sui cui costruire? Questa è la domanda che qualcuno sta cominciando a porsi al di là delle critiche al governo.
C’è bisogno di una positività visibile e chiara che possa smuovere i russi, è stato detto; “alla gente non piace essere disprezzata. Le piace quando le spiegano qualcosa di interessante”. Attualmente la propaganda ufficiale gioca sui motivi del patriottismo arcaico tribale, che ha una certa presa e tuttavia, dice Desnickij, “il mercato delle idee offre cose più attraenti”: sono questi ideali positivi e affascinanti che vanno cercati, non il sarcasmo e la pura critica, che non pagano né in politica né in religione.
E il discorso si allarga così sino a investire anche la religione, ma non nella direzione della solita diatriba sulla compromissione della Chiesa con lo Stato. Anzi, quella che comincia a porsi è proprio l’esigenza di superare le divisioni di tipo politico. È entrato nell’uso, anche tra credenti, vituperarsi a vicenda tra conservatori e liberali; e questi ultimi hanno buon gioco a lanciare strali contro l’oscurantismo degli avversari ma, conclude Desnickij, “noi ‘cristiani illuminati’ cosa facciamo per mostrare il volto affascinante di una vita cristiana veramente diversa?”.
Se solo si prendessero con serietà queste domande, vorrebbe dire che anche le elezioni alla Duma hanno avuto una loro utilità.