Le liberalizzazioni sono tornate tema forte nel corso dell’estate. Lo sono tornate “dall’alto”, allorché alcuni commentatori liberisti hanno ricominciato a premere sul governo perché cerchi con robuste iniezioni di concorrenza su più mercati possibili quella ripresa che gli stimoli monetari non sono riusciti a dare e quelli fiscali (sempre limitati) difficilmente potranno dare. Ma le liberalizzazioni sono rientrate nel dibattito pubblico soprattutto “dal basso”.

La madre di tutte le liberalizzazioni Ue – la cosiddetta “Direttiva Bolkestein”, varata nel 2006 – si accinge ad entrare nella normativa nazionale attraverso il nuovo disegno di legge sulla concorrenza, approvato ad agosto dalla Commissione industria del Senato, emanazione diretta della Direttiva Bolkestein. Ne hanno parlato le pagine politiche ed economiche, ma soprattutto la cronaca: una manifestazione di ambulanti nella Firenze di Matteo Renzi; un ordine del giorno critico del Comune di Torino sullo stesso tema; un contrasto fra il Governo e la Regione Toscana sulle concessioni degli stabilimenti balneari (che verrebbero prorogate al 2020 e non rimesse in gioco già nel 2017) e così via in numerosi episodi lungo tutta la penisola. 

La questione, dunque, è tutt’altro che accademica: questa supposta “distruzione creativa” che la Bolkestein accelererebbe, non solo nelle concessioni dei suoli pubblici, produce veramente “bene” sul terreno economico?

Farebbe bene la “concorrenza assoluta” nei mercati dell’artigianato, fra idraulici e falegnami? A un prevedibile crollo dei prezzi si assocerebbero prevedibilmente un abbassamento della qualità, una minor sicurezza del lavoro, l’abbassamento o la scomparsa degli standard di rispetto per l’ambiente. Per non parlare dell’applicazione delle normative base del mercato del lavoro. Sul piano sociale dell’economia, si scatenerebbero facilmente nuove “guerre tra poveri” di diversa nazionalità. Dobbiamo ragionarci su: è questa la “New New Economy” che desideriamo?

Le concessioni demaniali delle spiagge sono emerse come terreno di verifica e di scontro. La Direttiva dice che “devono essere messe a gara a livello europeo e devono avere durata limitata”. Si vuole abbandonare le concessioni senza limite e il rinnovo automatico della concessione: è un bene? Il passaggio non può che avvenire per passi graduali, nel rispetto di chi ha un’attività avviata da anni e di chi vuole entrare nel mercato.

All’alba di una possibile “era di Uber”, i taxi sono naturalmente al centro del mirino dei pro-Bolkestein. Ma le liberalizzazioni “New Mobility” non possono non tener conto che si tratta di un mercato protetto in cui le licenze sono state acquistate a caro prezzo e quindi l’inevitabile passaggio (dovuto alle nuove tecnologie), va governato con la gradualità necessaria.

Un altro fronte critico si apre quando le liberalizzazioni trasmigrano dai “libri dei sogni” a codici. E’ il caso degli ordini professionali: primo fra tutti quello degli avvocati. Giusto abolire i privilegi, ma storicamente gli ordini tutelano la qualità dell’offerta professionale. In paesi come la Spagna, l’esperienza della liberalizzazione dell’ordine degli avvocati è stata così fallimentare che si pensa di tornare a un controllo da parte dello Stato, attraverso le sue istituzioni specifiche, sull’accesso, sulla formazione e sulla correttezza della condotta del professionista.

E cosa dire degli ambulanti sul piede di guerra in mezza Italia? Rimangono un esempio significativo di combinazione rilevante di ragioni economiche (qualità/prezzo) e tradizione sociale di ciò che è “mercato”.

Può sembrare un gioco di retroguardia tornare a interrogarsi su “quali liberalizzazioni” sono realmente utili all’Azienda-Italia. Ma visto il collasso dei mercati finanziari e delle turbolenze economiche che sono seguite dopo il 2006, si può dire che la Direttiva debba essere ripensata. Dieci anni fa una Ue completamente diversa da quella odierna, il miraggio di una effettiva unità spingeva a manovre di stampo prettamente neo-liberista, con connotazioni quasi ideologiche.

La concorrenza è una cosa utile, ma non significa assenza di regole: vuol dire produrre miglior qualità del servizio al prezzo migliore per i consumatori. E – come suggerisce quell’ordo-liberismo che si va sempre più affermando come “dottrina economica europea” in competizione con l’ultraliberismo globalista – non è vero che l’assenza di regole produca incrementi netti di beni economici tangibili e intangibili. 

Ma nel ventunesimo secolo sono ancora numerosi agguerriti gli epigoni di Margareth Thatcher: se “la società non esiste” ed è solo un aggregato di individui che rappresentano una somma di interessi individuali, il mercato non deve avere regole e l’interesse collettivo si raggiunge solo con il prevalere egoistico del più forte attraverso la legge della concorrenza ritenuta salvifica. Dal 2008 sappiamo che questa concezione era utopistica e in Italia stiamo continuando a pagare prezzi altissimi. Non all’incapacità di stare sul mercato, ma all’abuso dell’ideologia del mercato.