Prima la compassione, poi la comprensione e il giudizio. Aleppo, ground zero del pianeta. Dopo cinque anni di guerra, ora arriva l’offensiva finale di Assad e Putin che non fa distinzioni tra “ribelli buoni” e jihadisti, senza alcun riguardo per la popolazione civile. Ora si capisce perché la tregua di settimana scorsa è saltata e perché il convoglio umanitario delle Nazioni Unite non ha raggiunto la sua destinazione.
Aleppo è una città piena di dolore. Le agenzie internazionali hanno diffuso nello scorso fine settimana, dopo gli ultimi bombardamenti, una foto durissima, difficile da guardare. Una madre vestita di nero che tiene in braccio un bambino con una grande ferita alla testa. Un hijab le copre la bocca. La donna piange senza lacrime. Il velo fa risaltare i suoi occhi, rivolti verso il cielo, inondati dal grande dolore di aver perso un figlio.
Si vorrebbe guardare da un’altra parte. Sembra che questa volta l’attitudine dell’uomo post-moderno (questo-l’ho-già-visto-e-lo-conosco) sia, se non onorevole, almeno raccomandabile. Quando però si vince la prima resistenza ci si accorge che conviene guardare, perché non c’è nulla di meno umano che voltarsi dall’altra parte. Guardando uno può imprecare, restare in silenzio, gridare, pregare: ognuno guarda coi propri occhi, non potrebbe essere altrimenti, ma è più umano vivere con il dolore degli altri piuttosto che con la compassione che non occupa spazio. È più umano guardare la vita con gli occhi pieni del dolore di una madre di Aleppo, con il suo sguardo dolente fisso al cielo.
Ad Aleppo si soffre per via delle lotte di potere e perché c’è chi continua a concepire la democrazia come qualcosa di astratto. Né Assad, né Putin hanno voluto un’effettiva tregua, come già avvenuto a febbraio, perché cercano una vittoria totale: su Daesh, su al-Nusra e sui gruppi ribelli non jihadisti. Nessuno sa in realtà quale sia il confine tra questi gruppi, nemmeno gli Stati Uniti che sostengono l’opposizione siriana. La Russia ha quindi trovato la guerra perfetta per il suo nuovo imperialismo. Il petrolio sotto i 48 dollari al barile non è un problema. Nemmeno lo è la crisi economica e demografica se Mosca ha una Crimea da invadere per far così salire il suo testosterone nazionalista. Non c’è nulla di meglio ora che ritrovarsi con uno sbocco sul Mediterraneo, dopo quello sul Mar Nero. E Putin non è per le “smancerie” occidentali: se ci sono centinaia, migliaia o decine di migliaia di morti è secondario rispetto alla vittoria da esibire su Daesh e sull’opposizione ad Assad.
Le bombe non cadrebbero in maniera così spietata su Aleppo se la Russia non fosse la Russia e se Obama non avesse commesso lo stesso errore compiuto da Wilson in Europa dopo la Prima guerra mondiale. Un errore molto simile a quello di Bush nella Guerra del Golfo. Ci sono due anime nella politica estera degli Usa: l’anima realista incarnata dai due Roosevelt e quella idealista di Wilson. Quest’ultima, combinata con dosi di utopia messianica, produce conseguenze nefaste.
Obama, quando la primavera araba siriana si è trasformata in una guerra civile tra jihadisti e Assad, ha scelto la democrazia come criterio assoluto per l’intervento americano. Su Assad non si poteva contare, bisognava abbatterlo e poi cominciare a lottare contro Daesh. La stessa cosa fatta da Wilson all’inizio del XX secolo, quando si era prefisso come obiettivo la democratizzazione del mondo. Per questo non accettò l’armistizio chiesto dalla Germania, chiedendo la destituzione del kaiser. E fece sì che il Trattato di Versailles umiliasse i malvagi e antidemocratici tedeschi. In questo modo pose in Europa i semi della Seconda guerra mondiale. Non ebbe l’intelligenza che venne usata al Congresso di Vienna, quando anche gli sconfitti francesi ebbero modo di sedersi al tavolo.
Obama, come Wilson, ha voluto porre come principio e criterio assoluto la sconfitta del dittatore, senza se e senza ma. Qualcosa di simile è avvenuto in Iraq con Bush. La democrazia, che tutti sosteniamo senza discutere, si trasforma in un’arma pericolosa quando non tiene conto delle circostanze antropologiche, delle appartenenze nazionali e delle identità religiose. Se poi si aggiunge la posizione di debolezza degli americani, vista la loro alleanza con l’Arabia Saudita, il quadro diventa ancora più chiaro.
Destra e sinistra concordano nel difendere/giustificare l’ingerenza internazionale, neo-conservatori e progressisti concordano nel pensare che la democrazia è un bene del mercato e degli individui: né gli uni, né gli altri sono in grado di comprendere la complessità delle diverse società, sono arroganti rispetto alla dottrina classica del male minore, sono sordi rispetto a quello che da subito hanno detto le realiste e concrete comunità cristiane del Paese.
Preghiamo e continuiamo a cercare di capire cosa sta succedendo in Siria. Non solo per i siriani, ma per noi stessi.