Sono tante le persone intervistate a caso per le strade americane che si dicono lontane da entrambi i candidati alla Casa Bianca. Le ragioni addotte sono diverse, ma una disapprovazione così ampia ha, a mio parere, un fondamento comune: sia la Clinton che Trump rappresentano il tradimento del sogno americano.
In origine l’American Dream non era un progetto di mero arricchimento materiale e di egemonia sul mondo, ma un anelito di maggior libertà, opportunità per tutti, espressione e ricerca di sé, capacità di creare e costruire.
Viene in aiuto per approfondire questo tema la recente pubblicazione di alcuni discorsi di Lorenzo Albacete, protagonista geniale e atipico della Chiesa e del mondo culturale americano per quarant’anni (Realtà e ragione, ed. Marietti), a cui Luigi Giussani, nei primi anni 90 “aveva chiesto di aiutare le comunità (di Comunione e Liberazione) negli Stati Uniti a capire meglio l’esperienza religiosa americana e i suoi effetti su quella che, di fatto, è diventata la cultura dominante nel mondo”.
Il volumetto mostra bene come per Lorenzo la separazione radicale tra una vita pubblica dominata dal materialismo, edonista e consumista prima e nichilista poi, e un’esperienza religiosa per lo più individualista e spiritualista, tenuta insieme da sette chiuse alla novità e autoreferenziali, ha creato una società violenta, classista e frammentata, in cui sia i pochi che riescono sia i tanti vinti vivono alla fine un grande smarrimento esistenziale.
Lorenzo era un teologo raffinato (nel volume si trova un confronto serrato con i punti esistenzialmente rilevanti della cultura contemporanea), ma la sua risposta alla crisi del sogno americano non sta nella teologia o nella riaffermazione nostalgica di valori e principi morali.
La sua risposta, si può dire, si colloca su due piani. Quello personale, prima di tutto, che consiste nella sua presenza, nella sua realtà di uomo. E — secondo — quello che attiene lo sviluppo del pensiero.
Lorenzo era un uomo spiazzante: per la sua ironia, per la sua profondità, per la sua immensa potenza affettiva, ma anche per la sua capacità di trovare ogni circostanza, anche la più banale, decisiva per la sua vita. Con lui, in una stessa conversazione si passava “dal sublime al ridicolo, dal personale al metafisico”, come disse la regista Helen Whitney, sua amica.
Un uomo pieno di desiderio che piangeva quando ascoltava una canzone come The impossibile dream (“Sognare il sogno impossibile, combattere il nemico imbattibile, sopportare il dolore insopportabile, correre dove i coraggiosi non osano andare, correggere i torti irreparabili, amare in modo casto e pure da lontano, tentare quando le braccia sono troppo stanche, raggiungere la stella irraggiungibile…”), e che, in una conversazione con a tema perché seguire Cristo, invece di fare disquisizioni teologiche, aveva risposto, cantando il pezzo dal musical Man of la Mancia in cui Sancho Panza dice perché segue Don Chisciotte: “perché mi piace, fatemi tutto quello che volete ma a me piace!”.
A me la sua ricerca di significato, di verità appariva sempre appena iniziata ma sempre all’apice. Ero colpito ogni volta dal fatto che per lui i particolari del reale non fossero pretesti per confermare quello che sapeva già. La realtà era l’ambito in cui poteva avvenire qualcosa di nuovo, di interessante, che in qualche modo gli avrebbe anche fatto cambiare idea. Era stimolato e affascinato dalla diversità di opinione. Un vero spirito libero.
In una parola, Lorenzo ha mostrato che la risposta all’utopia di una promessa non mantenuta, come è diventato il sogno americano, è la vita nuova — per lui la vita vissuta in rapporto con Cristo — donata all’uomo in un incontro, non una costruzione intellettuale o una morale.
E lo ha fatto anche — questo è il secondo livello — sviluppando un suo pensiero originale, mostrando come tutto quello che poteva essere associato al sogno americano (la ricerca scientifica — prima di diventare prete, era un fisico alla Nasa —, la lotta per il progresso, lo sviluppo economico, il desiderio di uno Stato multietnico ma pacifico, la pretesa della libertà) non contraddicesse, ma anzi fosse un ambito utile perché l’esperienza di ciò che è umano possa crescere.
Invece di difendere il perimetro di un cattolicesimo chiuso in fortini, fatto di home school, pro-life, feste patronali, Albacete parlava del futuro possibile, del valore di un dialogo profondo tra una cultura laica delusa da se stessa e un cattolicesimo liberato dai suoi schemi autoreferenziali per diventare percorso di crescita di ogni “io”.
Disse in una riunione di Crossroads, il centro culturale che aveva contribuito a fondare: “la cultura è definita in base a come guardiamo e facciamo esperienza della realtà. La vera scelta è tra una cultura chiusa alla realtà in tutte le sue dimensioni e aspetti e una aperta ad essa, a questo livello, il livello dell’incontro tra la nostra esperienza e la cultura stessa”.
Il fatto di vivere il cristianesimo come un avvenimento di novità senza precondizioni ideologiche gli permetteva un rapporto di simpatia e dialogo sincero con tutti.
C’è un episodio contenuto nel libro che lo svela. Chiamato come esperto di “cose di Chiesa” e in particolare del pontificato di Giovanni Paolo II, iniziò a collaborare con giornali e televisioni americane. Un giorno un redattore delNew York Times gli disse: “Abbiamo molti amici che sono preti e che sono d’accordo con noi su quasi tutto. Il risultato è che quello che hanno da dire non è veramente interessante. D’altra parte, quelli che non sono d’accordo con noi non vogliono essere nostri amici. Lei è qui perché non è d’accordo con noi su molte cose, ma è ovvio che le piacciamo e che lei ci considera suoi amici”.
Per Albacete non esistevano circostanze nemiche della fede, ma solo circostanze in cui chi crede in Cristo è chiamato a cercarlo e riconoscerlo anche sotto ciò che apparentemente lo nega.
Il contributo che la fede può dare a questo mondo — e questo è in sintesi il valore della testimonianza eccezionale di Albacete — è la maturazione della personalità umana, non certo i cascami ideologici di una Chiesa ridotta a difensore di un mondo che non c’è più. E di cui non sentiamo certo la mancanza.