L’insuccesso in Spagna dei tentativi per formare il governo sta diventando un esempio paradigmatico di come fare una cattiva politica, una politica brutta e vecchia in un mondo che chiede sempre più soluzioni nuove. Un pessimo esempio di partiti nazionali che si aggrappano a una sovranità minima riconosciuta dalle leggi, ma annullata  dalle forze della globalizzazione. Un caso concreto di chiuse identità di partito, affermate con una ristrettezza propria di altri tempi, incapaci di aprirsi all’altro, concepite come un tutto sufficiente, dissociate da una realtà sociale che scorre su altri alvei.

Era prevedibile che il “Debate de Investidura” della scorsa settimana, il dibattito sulla candidatura a Primo ministro, avrebbe ancora una volta dovuto prendere atto di una situazione bloccata da quasi nove mesi. Rajoy avrebbe fallito il tentativo di diventare capo del governo, malgrado il patto con Ciudadanos, e i socialisti avrebbero ribadito il loro no. Tuttavia, quanto successo è molto peggiore di un fallimento annunciato.

Il dibattito è stato più negativo di quanto previsto, perché non si è limitato a certificare la paralisi, fatto che non avrebbe sorpreso, ma ha reso ancor più ampie le divisioni. Gli spagnoli,che non si aspettavano molto di più che un conferma della situazione, si sono visti vittime di una nuova profonda prova di cecità dei loro politici, della caparbia negazione di ogni pur minima fratellanza, dei continui falliti incontri che peggiorano ogni volta le cose. Della loro incapacità di imparare e della mancanza di immaginazione e di semplicità per adempiere al ruolo che loro stessi si sono assegnati.

Pedro Sánchez, il leader dei socialisti, che potrebbe facilitare nelle prossime settimane la formazione di un governo con solo dieci astensioni, si è dimostrato più duro che mai. Contro la sensibilità dei suoi elettori e contro una parte importante del suo partito, ha distrutto tutti i ponti e tutte le basi per poterli costruire in futuro: la massima durezza e la minima intelligenza politica, con lo stesso discorso ormai ripetuto da mesi.

Rivera, il leader di Ciudadanos, che ha messo a segno l’unico risultato da molto tempo con la chiusura dell’accordo con il PP (molto simile a quello raggiunto dal PSOE), ha rifiutato molto rapidamente il compito importante di costruttore di accordi assegnatogli dalla storia. 

Addirittura prima che si verificasse il fallimento di Rajoy, ha voluto ritirare l’appoggio che gli aveva dato, per timore di macchiarsi, di essere ricordato come colui che aveva aiutato il centro-destra. Rivera, come a tutti, sebbene sia appena arrivato, è preso dalla politica ideologica, vuole restare più a sinistra che a destra. Non si è creduto in quello che pure si è tanto predicato: ciò che conta non sono le etichette, ma i bisogni delle persone.

E Rajoy stufo in un modo incredibile. E’ difficile immaginare un candidato con così poco coinvolgimento emotivo – fattore decisivo anche in politica – quando si chiede di diventare capo del governo. Difficilmente avrebbe potuto dare una risposta più scontata agli attacchi dei suoi avversari.

La politica è più o meno buona in proporzione al bene che è capace di generare per un Paese, secondo gli strumenti a disposizione e le circostanze nelle quali deve essere applicata. I politici della transizione spagnola, i leader del dopoguerra o i dissidenti del comunismo hanno fatto della buona politica, perché hanno saputo utilizzare strumenti molto limitati, in alcuni casi quasi inesistenti, per produrre cambiamenti positivi in momenti estremamente difficili. 

L’immagine di un soggetto politico è data dall’uso che egli fa degli strumenti che ha a disposizione. Ci sono giganti che non disponendo di alcun strumento istituzionale, da un campo di concentramento o da un carcere (Havel o Mandela), sono stati capaci di cambiamenti storici impensabili per altri che invece controllano buona parte dei meccanismi dello Stato. E ci sono nani che finiscono sepolti perfino con le migliori condizioni possibili (gli esempi sono anche troppo numerosi).

Gli strumenti istituzionali e le circostanze attuali della Spagna non sono ottimali. Tuttavia i meccanismi che lo Stato mette a disposizione dei politici sono ragionevoli.

L’appoggio della Unione Europea è una garanzia, il meccanismo elettorale e il sistema costituzionale sono imperfetti ma, usati con intelligenza, permetterebbero di andare avanti. E’ la debolezza dei leader che impedisce di superare il blocco. Hanno fallito per un uso inadeguato degli strumenti e dei partiti. Alla fine tutte le democrazie dipendono dall’antropologia. E’ bastato che la maggioranza non fosse sufficiente perché venissero schiacciati dallo strumento.

I partiti spagnoli furono concepiti come formazioni forti in grado di superare i problemi della Seconda Repubblica ma, quarant’anni dopo, i loro responsabili li hanno trasformati in organizzazioni ermetiche. 

Hanno bisogno di marcare il territorio per sentirsi vivi e percepiscono il dialogo come una debolezza, sintomo di massima insicurezza politica. Il capo è nulla fuori dalle sue sigle e le sigle non son nulla senza il capo. Si concepiscono come entità autosufficienti. Sembra mancare ai politici spagnoli, ma forse è un male di tutto l’Occidente, questa esperienza così comune  nella vita: l’esperienza della vicinanza. Vediamo il vicino innanzitutto come straniero, come una potenziale minaccia. Nella misura in cui i nostri contatti con lui si fanno più frequenti e gli incontri più consapevoli, cominciamo a renderci conto che sono come nostri amici e perfino come noi stessi. E la trincea scavata così in fretta viene lasciata alle spalle, superata dalla evidenza di una vita condivisa.