Lunedì prossimo a Mosca aprirà i battenti una grande mostra di dipinti di Raffaello — la prima in assoluto in Russia — realizzata in collaborazione tra Italia e Russia, tra il Museo Puškin e la Galleria degli Uffizi. Un evento culturale di primo piano, che probabilmente richiamerà per mesi lunghissime file di visitatori davanti al museo. Ma non solo. Per i russi Raffaello non è semplicemente un grande genio del Rinascimento italiano, o uno dei vertici dell’arte mondiale. Da almeno due secoli è assurto a simbolo dell’idea di Europa, anzi di universalità, di quell’unità precedente ed eccedente ogni divisione che ha potuto dare i natali all’Europa. Un simbolo che si è condensato in un quadro — la Madonna Sistina — tutto sommato non l’opera più nota del maestro in Italia, ma che da almeno due secoli, per una serie di circostanze fortuite, è divenuta parte integrante della cultura russa, è entrata nella vita e nell’opera di poeti, scrittori, filosofi, da Puškin, Dostoevskij, Tolstoj, fino a Berdjaev, Bulgakov e Grossman.
Molto più dell’arte: un incontro personale, un Tu che cambia la vita, come capitò all’economista Sergej Bulgakov (il futuro grande teologo e sacerdote ortodosso). In quelli che lui stesso chiama gli «oscuri giorni del mio marxismo», sulla soglia del XX secolo, fa «all’improvviso un inatteso prodigioso incontro: la Madonna Sistina a Dresda, Tu stessa mi hai toccato il cuore, che ha sussultato all’udire il Tuo appello… Non è stata una commozione estetica, no, è stato un incontro, un nuovo sapere, un miracolo… Io (allora marxista!) involontariamente chiamavo preghiera questa contemplazione e ogni mattino… correvo là, davanti al volto della Madonna, a “pregare” e a piangere; non sono molti nella vita gli istanti che potrebbero dirsi più beati di queste lacrime…».
Un’universalità, un’unità — un «nuovo sapere» — che è in grado di convivere, superandoli, con pregiudizi antioccidentali, anticattolici. Solo pochi, probabilmente, sanno che una riproduzione del celebre quadro di Raffaello la Madonna della seggiola è venerata a Mosca come l’icona della Madre di Dio delle tre gioie in una chiesa ortodossa del centro. Lo stesso Dostoevskij — non certo tenero verso il cattolicesimo romano — aveva una riproduzione della Madonna Sistina nel suo studio, appesa proprio sopra il divano su cui sarebbe spirato. E perfino nella cella dello starec Zosima de I fratelli Karamazov, insieme ad antiche icone si descrivono incisioni e stampe di quadri sacri della tradizione cattolica. La moglie Anna Grigor’evna annoterà nel diario: «Quante volte nell’ultimo anno di vita di Fedor Michajlovic l’ho trovato davanti a questo grande dipinto, immerso in una commozione così profonda da non accorgersi che entravo, e così, per non disturbare la sua preghiera, uscivo pian piano dallo studio».
Incredibilmente, per migliaia di ortodossi russi — intellettuali ma anche gente semplice — la Madonna Sistina ha superato i muri di diffidenza e di ostilità che pure continuavano a permanere tra le diverse tradizioni culturali e cristiane, tra l’Occidente e la Russia. È stata un pertugio, un punto di sfondamento che portava dalla divisione al cuore dell’unità. Che cos’è cambiato, nel contesto attuale, dove difendere la propria tradizione sembra comportare necessariamente il rifiuto di tutto ciò che le è estraneo?
La Madonna Sistina è addirittura arrivata in Russia: requisita alla Germania sconfitta, è arrivata insieme alle truppe vittoriose dell’Armata Rossa, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale; è rimasta fino al 1955, quando — dopo essere stata esposta per qualche tempo al Museo Puškin che ora ospiterà la mostra di Raffaello — viene restituita alla Germania. Tra i tanti che sfilano davanti a lei in quella primavera del 1955 c’è Vasilij Grossman, uno scrittore ebreo, non credente, passato attraverso un lungo travaglio personale che lo porta a scavare nelle tragedie del XX secolo. Che ne è stato, che ne è del cuore dell’uomo? La risposta a questi drammatici interrogativi Grossman la trova negli occhi, nello sguardo di questa «giovane donna che offre alla sorte — senza difenderlo — il Bambino». La risposta è l’«immortalità», la cifra della sete di bellezza e di verità che si identifica con la vita stessa, e che fa dire a Grossman che nel cuore dell’esistente c’è qualcosa di inestirpabile, irriducibile, quali che siano le forme spaventose che la realtà può assumere: «… se anche l’uomo dovesse estinguersi, gli esseri che prenderanno il suo posto sulla terra — lupi, ratti, orsi o rondini che siano — verranno sulle loro zampe o con le loro ali ad ammirare la Madonna di Raffaello…».
Il poeta Osip Mandel’štam parlava di «nostalgia della cultura universale», ma noi potremmo anche definirla, con Grossman, nostalgia dell’«umano nell’umano». I muri nascono quando smettiamo di vedere in volto l’altro — come faceva Madre Teresa —, quando l’altro si riduce a numeri o problemi. Quando smettiamo di guardare in volto il mendicante che chiede la carità, il terremotato, il migrante e il profugo. È sempre un incontro particolare la «chiave di volta della concezione cristiana dell’uomo, della sua moralità, nel suo rapporto con Dio, con la vita, con il mondo», ricordava don Giussani. Grossman riconosce veramente la Madonna Sistina e la risposta che essa racchiude, solo quando lascia sfilare davanti a sé l’umanità varia e dolente che a Treblinka scendeva dal treno per entrare nelle camere a gas: «L’umano nell’uomo ha continuato a esistere su tutte le croci a cui l’hanno inchiodato e in tutte le prigioni in cui lo torturavano… La Madonna con il Bambino è l’umano nell’umano: sta in questo la sua immortalità».
E così Grossman può concludere, lui, non credente, davanti alla Madonna Sistina: «Terrore, vergogna, dolore: perché ci è toccata una vita così atroce? Non sarà anche colpa mia, colpa nostra?.. Cosa diremo al cospetto del tribunale del passato e del futuro?..». «Diremo che non c’è stata un’epoca più dura della nostra, ma che non abbiamo lasciato morire l’umano nell’uomo. E accompagnando con lo sguardo la Madonna Sistina, continuiamo a credere che vita e libertà siano una cosa sola, e che non ci sia nulla di più sublime dell’umano nell’uomo».