Scrivo da Qaraqosh, il ground zero del genocidio cristiano nel nord dell’Iraq. Un genocidio che non si vuol riconoscere. Venendo da Erbil si superano cinque check point per raggiungere quella che era la più grande città cristiana del Paese. I primi tre sono sotto il controllo dei peshmerga, che riducono al minimo gli ingressi. Dalle sette della mattina si formano lunghe code, poiché i curdi consentono ai cristiani di raggiungere le proprie case con il contagocce e due ore prima del tramonto devono tornare indietro. L’esercito iracheno, che controlla la zona più vicina a Qaraqosh, è più flessibile. All’ingresso della città ci sono anche soldati americani. In lontananza si sentono i rumori di bombardamenti ed esplosioni. Il capo della milizia cristiana racconta di aver arrestato due membri dell’Isis a pochi chilometri di distanza.



Entrando nella città l’immagine che si ha davanti agli occhi è dantesca, come quella che ho visto a nord di Mosul, a Batnaya e Teleskof. Ma qui la desolazione è persino più impressionante: si è di fronte a una grande città fantasma. L’unica cosa positiva è che non ci sono mine. Le case abbandonate in tutta fretta sono state saccheggiate. Molte bombardate dalla coalizione internazionale. I cristiani che sono riusciti a entrare stamattina bruciano i vestiti alle porte delle loro case: non vogliono recuperare nulla che sia stato usato dai miliziani dell’Isis. Si elevano colonne di fumo qua e là, tutti i mobili sono spariti. Quando qualcuno dell’Isis si sposava veniva qui a “rifornirsi”. Le poche donne che non se ne erano andate sono state violentate ripetutamente e trasformate in “spose” dello Stato islamico.



Nella grande cattedrale siro-cattolica, costruita con lo sforzo di tutto il popolo, i rappresentanti del Califfato hanno costruito un poligono di tiro, hanno bruciato il tetto e sulle colonne della navata centrale hanno messo dipinti propagandistici dello Stato Islamico. La furia distruttiva dell’Isis sembra aver avuto un bersaglio principale: le croci. Sono state infatti mutilate tutte. Il cimitero è sorvegliato dall’esercito iracheno e occorre una lunga trattativa per visitarlo. La solitudine dei morti è accompagnata solamente da latrato dei cani insonni. Lo Stato Islamico ha profanato le tombe, come accaduto nei villaggi del nord.



Si è compiuta la profezia di Giona. Le madri dei bambini cristiani di Ninive avevano insegnato loro trent’anni fa che la profezia si era compiuta tre volte. Questa è la quarta volta che Ninive (Mosul) e la sua pianura vengono distrutte. Non sarà l’ultima, presto potrebbe arrivare quella definitiva. L’Isis non è infatti la minaccia più grande. Quando Daesh aveva preso la pianura di Ninive c’erano 120.000 cristiani, che sono fuggiti a Erbil e nei villaggi del nord. La metà ha lasciato il Paese, mentre gli altri 60.000 non sanno se tornare. Tutti reclamano la loro terra. I curdi vogliono ampliare i loro confini e la loro moderazione islamica pare si stia trasformando in radicalismo. Il governo iracheno, sciita, accarezza l’idea di trasformare i villaggi cristiani in una zona della propria confessione, così da contrastare i sunniti.

La cosa “strana” di tutta questa vicenda è che le Nazioni Unite non vogliono qualificare quello che è successo come “genocidio”, nonostante lo abbiano fatto gli Usa e l’Ue. Perché si nega una risoluzione che riconosca quanto accaduto? Bisogna accontentare le richieste sciite? 

Ninive è stata distrutta per la quarta volta, ma Giona continua a uscire dalla balena il terzo giorno. I cristiani non sanno se potranno tornare, ma in molti in queste circostanze stanno riscoprendo la loro fede. Con commozione ascolto un giovane di 20 anni, che è fuggito dall’Isis e che nella sua stanza disordinata e utilizzata dal Califfato mi racconta come in questi due anni e mezzo si è reso conto che Dio è a suo fianco. Se un giovane guarda senza odio il suo destino è perché la balena è stata sconfitta: Giona aveva ragione.