Bar del Giambellino, l’educazione che nasce dal cuore

In molti si sprecano in analisi ed editoriali dedicati al fallimento della scuola italiana, in pochi vanno a vedere sul posto qual è la realtà oggettiva. GIORGIO VITTADINI

Guardare il mondo dall’alto dà la possibilità di inserire ciò che si osserva in un contesto ampio, di farne emergere i tratti sintetici e riflettere sulla sua prospettiva. E’ il valore, ad esempio, degli interventi di Ernesto Galli della Loggia e di Susanna Tamaro sulla scuola apparsi di recente sul Corriere della Sera. Contributi che finalmente non limitano il problema dell’istruzione solo al posto di lavoro degli insegnanti o alla difesa di un’istituzione del passato, centralista, uniforme e, alla fine, classista. I due interventi invece tornano a parlare della scuola italiana, dei suoi pregi e dei suoi difetti, in base alla sua missione educativa e formativa.

Guardare dall’alto o riflettere da una scrivania però difficilmente può permettere di individuare soluzioni. Per arrivare fino a questo punto bisogna toccare con mano, guardare da vicino e soprattutto vivere e cercare risposte mettendo le mani in pasta, in prima persona, come ha cercato di documentare su queste pagine Giulia Sponza, insegnante nell’Istituto Comprensivo Martiri della Libertà plesso Don Milani di Sesto San Giovanni.

E’ fondamentale che chi si occupa di scuola, dal Ministero ai consulenti ai commentatori, veda in azione le tante, tantissime “piccole storie”, disseminate in tutta la realtà nazionale, semi tutt’altro che asfittici e che, anzi, continuano a rinascere e a germinare.

Abbiamo parlato due settimane fa della scuola rinata in Calabria.

La situazione di partenza non è diversa al Giambellino, uno dei quartieri più difficili di Milano. Oggi, qui non si aggirano più i personaggi della vecchia mala come Ceruti Gino, il simpatico bullo di periferia descritto in una canzone di Giorgio Gaber degli anni Sessanta. Sui banchi della scuola media locale si siedono ragazzini provenienti da tutte le parti del mondo, spesso senza i genitori, inseriti senza sapere una parola di italiano o di inglese. A questi si aggiungono bambini rom che frequentano saltuariamente. Ci sono poi ragazzi italiani con famiglie sfasciate alle spalle, mentre il preside è per lo più assente perché deve dividersi tra più plessi. Così capita che i supplenti mollino l’incarico dopo un mese perché non reggono lo stress e le difficoltà.

Cosa fanno i professori in questa situazione, invece di accodarsi ad analisi giuste ma sterili e senza alcuna prospettiva? Fanno il possibile, si rimboccano le maniche perché il desiderio di educare è irrinunciabile.

L’insegnante di inglese passa lunghe ore dopo la scuola a preparare fogli in cui incolla figure sotto cui scrive il nome in inglese e in italiano (ricordate il maestro Manzi alla Tv negli anni 60?), e per differenziare e personalizzare quanto più possibile i lavori da assegnare. Altri docenti dedicano del tempo per educare al valore del rispetto reciproco e della stima: parliamo di ragazzi egiziani e pakistani che nella loro terra di origine frequentavano classi anche di 60 alunni dove non era l’eccezione subire violenza da parte dei docenti. Altri ancora sono attenti ai particolari più banali, a cui non sarebbero tenuti a guardare ma che fanno la dignità di una persona: l’igiene personale, la merenda, il modo di passare i pomeriggi, la salute, il sonno.

Succede che bambini musulmani, in assenza dell’insegnante dell’ora alternativa a quella di religione, vengano coinvolti da professori in attività extra, come la costruzione del presepe, e sono contenti di farlo. Succede che si riesca a vincere la resistenza di genitori che, in osservanza ai loro convincimenti non avrebbero voluto che i figli suonassero uno strumento musicale. I muri cadono, quando si riconosce la valenza del bene comune.

Accade anche che ragazzini tirati fuori dalla strada che all’inizio dell’anno non riuscivano e non volevano neanche stare in classe e tanto meno rimanere seduti senza disturbare abbiano voglia di ascoltare, imparare, partecipare anche oltre lo stretto dovere.

Ad onta delle analisi, si rinnova al Giambellino quella tradizione educativa, oggi considerata retorica dai grandi commentatori, che dice che in qualunque condizione l’istruzione affascina, resuscita, redime. Come ai tempi delle maestre di campagna descritte mirabilmente da Guareschi.

“Non ci sentiamo eroici – dice una professoressa -: abbiamo a che fare con assistenti sociali e tribunali, ci sono situazioni pesanti e umanamente faticose ma siamo contenti nonostante la stanchezza e le tante sfide che vanno oltre all’insegnamento puro”.

Non è un caso isolato: sono tantissimi i professori simili a quelli del Giambellino che, già da ora, ogni giorno fanno il possibile e l’impossibile per buttare quel seme che un giorno crescerà.

Anche per migliorare la scuola bisogna innanzitutto rinunciare ad astratti “piani quinquennali” imposti dall’alto e partire dall’iniziativa e dalla creatività di chi ci lavora mettendoci testa e cuore.

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