Mercoledì scorso, 25 gennaio, si è celebrato il trigesimo anniversario della scomparsa di padre Romano Scalfi, iniziatore e anima di Russia Cristiana, morto il giorno di Natale all’età di 93 anni. Molti ne hanno già parlato (anche su queste pagine) e non voglio aggiungere commenti sulla sua personalità e sulla sua opera (ci sarà forse occasione di tornarci con l’approfondimento che meritano), ma solo segnalare due coincidenze (oltre a quella, commovente, della sua nascita al cielo nel giorno stesso della nascita in terra di Gesù).
La prima è che la cerimonia di mercoledì scorso coincideva con la festa della conversione di san Paolo che conclude il cosiddetto “ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani”. Proprio per l’unità con la Chiesa ortodossa vivente in Russia (e, per il terribile settantennio di persecuzione, nella Russia sfigurata in Unione Sovietica) padre Scalfi ha speso le migliori energie di un’intera vita. Il suo punto di partenza era che nessun potere mondano, per quanto aggressivo, sarebbe mai riuscito a distruggere la fede millenaria di un popolo; che la Russia, benché violentemente attaccata dall’esterno e miseramente avvilita anche dall’interno, restava “cristiana” e compito di noi credenti occidentali era quello di ricordarci, nel senso forte ed operativo, dei nostri fratelli oltre cortina, di dare voce alla cosiddetta “Chiesa del silenzio”.
La seconda coincidenza ruota appunto intorno alla parola “silenzio” e al dibattito suscitato dal film che ne prende il titolo. Non mi riferisco al fatto che la Chiesa giapponese del diciassettesimo secolo e quella russa del ventesimo sono accomunate da una persecuzione così violenta da impedire ogni pubblica (e spesso anche privata) espressione della fede, bensì ai numerosi commenti che si sono fatti attorno al “silenzio” di un Dio che proprio nel momento della prova abbandonerebbe chi crede in lui. Non ho spazio per riassumere quanto ho letto e sentito in questi giorni, noto soltanto l’insopportabile superficialità priva di dramma con cui alcuni ne hanno parlato e la strana esaltazione, da parte di altri, di una fede totalmente rassegnata al fatto che, quando si attraversa un periodo di prova, Dio non parlerebbe (e quindi che anche il credente non avrebbe nulla da dire). Penso agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso: i cristiani in Unione Sovietica parevano scomparsi o ridotti a ripetere innocue manifestazioni di culto e poteva sembrare buona tattica non irritare ulteriormente il potere persecutore per evitare il peggio. Ma chi stava attento, come padre Scalfi, sentiva che quei fratelli parlavano eccome, testimoniavano Gesù come potevano, non imputavano a Dio di averli abbandonati ma semmai alla propria poca fede di averlo ascoltato solo superficialmente. Quei credenti inoltre avevano bisogno estremo di “sentire” la voce dei fratelli che vivevano i paesi “liberi”, di ascoltarne parole di conforto e di offrire loro una sofferta testimonianza che aiutasse ad affrontare anche loro la prova (perché essere in un paese libero non significa automaticamente vivere nella libertà dei figli di Dio).
È questa attenzione ai cenni nascosti, alla parola a volte bisbigliante di Dio e del suo popolo che padre Scalfi ha insegnato. Fino all’ultimo, fino a quando l’età gli ha impedito il lavoro e ridotto le occasioni di parlare, ma non quella lucentezza degli occhi che è segno di un udito vigile e di un cuore amante. Anche nel silenzio.