I muri si costruiscono contro il nemico interno, non contro quello esterno. Quando la Germania dell’Est costruì, nella notte tra il 12 e il 13 agosto del 1961, il muro che divideva Berlino, la chiamò Antifaschistischer Schutzwall, cioè barriera di protezione antifascista. Si trattava quindi di proteggere la popolazione che restava nella zona comunista dagli elementi totalitari che impedivano lo sviluppo del vero socialismo. Il muro ha avuto efficacia, nel breve termine, per contenere la massiccia emigrazione verso la libertà, ma non è durato a lungo.

Non è stato nemmeno efficace il muro più famoso del XXI secolo: quello che Israele ha cominciato a costruire per difendere la sua popolazione dal terrorismo. Nei 15 anni trascorsi dall’inizio della sua costruzione, la possibilità di una pace stabile in Terra Santa si è sempre più allontanata. Il muro e la politica in favore degli insediamenti di coloni in Cisgiordania, in una terra che secondo il diritto internazionale è dei palestinesi, hanno trasformato Israele in una fortezza assediata. Non solo dalle differenti versioni del terrorismo palestinese che si stanno succedendo negli anni (l’ultima delle quali è dei lupi solitari che non sono controllati né da Hamas, né dall’Olp), ma anche da una differenza demografica che prima o poi farà sentire i suoi effetti.

Il muro di Gerusalemme, per fare l’esempio di uno dei punti più conflittuali, nei suoi primi cinque anni ha causato un dimezzamento degli accessi dei palestinesi agli ospedali. Le famiglie separate, le difficoltà per lavorare dall’altro lato, l’isolamento di parte della popolazione o l’arbitrarietà nei check-point sono una ferita permanentemente aperta. E ora Netanyahu, impegnato a vincere piccole battaglie e a perdere la guerra decisiva per la pace, ha approvato la costruzione di 2.500 nuove case a Gerusalemme Est, territorio occupato.

Trump considera il muro israeliano come un esempio. Ma, come titolava un recente arguto editoriale del Chicago Tribune, il muro di Trump riguarda il risentimento e la paura, non l’immigrazione. Il muro in realtà è stato iniziato da Clinton nel 1993 e portato poi avanti da Bush. Dei 3.000 km di frontiera con il Messico, 1.100 sono già “murati”. In questo momento il saldo migratorio è negativo: sono più i messicani che tornano a casa di quelli che vanno negli Usa. Il numero di persone arrestate alla frontiera è sceso ai livelli più bassi dal 1971 e nella maggior parte dei casi si tratta di minori o gruppi familiari che arrivano dall’America centrale. 

Douglas S. Massey, professore all’Università di Princenton, che studia da anni nel Mexican Migration Project i movimenti da un lato all’altro della frontiera, ha un’ipotesi provocatoria. Assicura che il muro ha un effetto controproducente, perché ha frenato i movimenti di ritorno che una frontiera più “porosa” facilitava. I muri alimentano le mafie. 

In realtà, la cosa più rilevante del decreto presidenziale sull’immigrazione, firmato da Trump la scorsa settimana, è che facilita il sistema di espulsione e crea uno stato di paura. Lo ha detto chiaramente Joe S. Vasquez, vescovo di Austin, Texas, Presidente della Commissione episcopale per le migrazioni degli Stati Uniti. Le misure del nuovo Presidente “faranno sì che gli immigrati, specialmente quelli più deboli, le donne e i bambini, siano alla mercé di trafficanti e contrabbandieri”, ha detto Vasquez. La costruzione del muro “destabilizzerà le comunità che vivono pacificamente interconnesse lungo la frontiera”.

Il discorso di Trump vende falsa sicurezza ed è un paradigma della debolezza occidentale. È stato Bauman, in alcune delle pagine pubblicate prima della sua morte, a segnalare con più chiarezza che i muri si costruiscono non contro i nemici esterni, ma contro quelli interni e portano paura. Nel suo “Stranieri alle porte”, il sociologo spiegava che certe misure si prendono per cercare di affrontare il “panico morale” causato dalla crisi migratoria, la paura di perdere un modo di vivere su cui non si hanno certezze. 

I muri sono l’espressione di una profonda debolezza di chi non ha sicurezze riguardo la propria identità, riguardo la capacità della propria cultura di integrare e approfittare della conoscenza nuova che produce il mescolarsi. I Governi fanno “giochi di prestigio” per spostare la preoccupazione di fronte a problemi che non possono risolvere. Legare la sfida dell’immigrazione ai problemi della sicurezza nazionale e personale è una forma sbagliata di trarre beneficio dalla paura.

Nel lungo termine i muri non servono. I movimenti migratori hanno accompagnato sempre la modernità e persino cambiato direzione. La novità è questo non sapere chi siamo, questa insicurezza che si proietta verso l’altro.