Il lavoro è il protagonista indiscusso di questo scorcio d’inizio del 2017: e non solo per l’appello particolarmente accorato del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Fra una settimana la Corte costituzionale è chiamata a pronunciarsi sull’ammissibilità del referendum proposto dalla Cgil su tre quesiti riguardanti il Jobs Act: i voucher, l’articolo 18 e la corresponsabilità negli appalti.
La nuova Nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione rilasciata il 27 dicembre da ministero del Lavoro, Istat, Inps e Inail ha raccolto spunti diversi all’insegna di un cauto ottimismo: su una crescita dell’occupazione allineata ai ritmi della ripresa del Pil. Il progresso registrato nei primo nove mesi del 2016 è stato “quasi interamente ascrivibile all’incremento delle posizioni a tempo indeterminato”, sottolinea la Nota in uno dei passaggi-chiave. Un incremento “particolarmente significativo e concentrato nei trimestri fra il 2015 e 2016, tale da indurre duraturi effetti di trascinamento anche nei trimestri successivi”.
Nel gergo della statistica ufficiale, i quattro maggiori monitor pubblici del mercato del lavoro hanno certificato che il Jobs Act – l’unica vera riforma lasciata in eredità dal governo Renzi – ha seminato bene sia nel breve che nel medio periodo. Ma è proprio nei giorni del cambio di governo che la maggior confederazione sindacale ha rialzato la testa e il tiro contro la riforma del lavoro: sollecitandone il vaglio referendario con il sottinteso aggancio politico al pesante voto di bocciatura della riforma costituzionale.
Il Jobs Act a due anni dal varo, dopo i primi test positivi, per la Cgil resta dunque una riforma sbagliata a prescindere e gli italiani “non potranno non bocciarla”, replicando la scelta maturata nelle urne su un progetto di riforma nato ed elaborato in tutt’altri ambiti e modi. L’argomento critico, in ogni caso, non è che la riforma “non funziona” (le statistiche dicono il contrario e al Jobs Act starebbe guardando anche la Francia, l’ex “paese delle 35 ore”). La ragione principale per “abbattere” la riforma rimane il vulnus ideologico all’articolo 18 sui licenziamenti e – più in generale – la tendenza di lungo periodo alla flessibizzazione del mercato del lavoro in entrata e in uscita, fin dai tempi della legge Biagi.
S’innesta qui anche la polemica di Capodanno sui voucher: un altro tema su cui la Nota trimestrale è puntuale. Nei primi nove mesi del 2016 i buoni-lavoro venduti in Italia sono stati 109,5 milioni: aumento del 34,6% rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente. Ma “i buoni riscossi per attività svolte nel 2015 (quasi 88 milioni) corrispondono a circa 47mila lavoratori annui full time e rappresentano solo lo 0,23% della forza lavoro”. E metà di prestatori di lavoro accessorio hanno riscosso voucher per 2017,5 euro al massimo.
“E’ un fenomeno marginale”, ha tagliato corto Pietro Ichino. “Se ci sono stati degli abusi naturalmente vanno puniti, ma non sembra un’anomalia che in un paese come l’Italia ci possano essere mezzo milione o anche un milione di persone con lavoro accessorio od occasionale.
In Germania i mini-jobs sono 7 milioni”. I voucher – non solo Ichino – rappresentano un crinale certamente delicato fra “flessibilizzazione” e “precarizzazione” del lavoro. Abolirli del tutto significherebbe però disincentivare (rituffare nel sommerso) domanda e offerta di lavori come quelli agricoli stagionali o le ripetizioni saltuarie date da insegnanti o studenti.
Ben diversa esigenza è naturalmente quella di impedire e punire gli abusi: ad esempio in un cantiere edile fuori norma. Una manutenzione ai voucher – a livello normativo ma soprattutto nell’azione ispettiva – ci può stare. lo ha riconosciuto anche il presidente dell’Agenzia nazionale per la politiche attive del lavoro, Maurizio Del Conte. Quello che non è accettabile è ceare e alimentare strumentalmente una querelle-voucher per scagliare il Jobs Act nell’arena referendaria ancora arroventata dalla politica. L’Italia non ha bisogno di referendum sbagliati: soprattutto per colpire riforme giuste.