Sulla piazza principale di Caravaggio si affaccia un palazzetto con portici che oggi è sede del Municipio della cittadina lombarda. A fine 1500 questo palazzetto lungo e basso, dalle linee molto “padane”, era la casa dei marchesi di Caravaggio, Costanza Colonna e suo marito Francesco Sforza. Caravaggio, nel senso di Michelangelo Merisi, da bambino abitava lì vicino. Era nato a Milano dai genitori Fermo e Lucia nel 1571. Ma poi la peste, quella terribile di san Carlo, aveva portato via il padre; così la mamma con i quattro figli nel 1577 aveva preferito tornare nella cittadina di origine. Qui poteva appoggiarsi sul nonno Giovan Giacomo che era agrimensore dei marchesi. Costanza Colonna era un tipo molto dinamico, in fitto contatto epistolare con Carlo Borromeo, che ne aveva tessuto un elogio perché aveva introdotto a Caravaggio la “schola di dottrina cristiana”, cioè il catechismo, che lei stessa insegnava. È verosimile che il giovane Michelangelo sia stato suo allievo. Quello che è sicuro è che la marchesa si prese a cuore il destino di quel ragazzino molto estroverso e geniale, e che grazie anche ad un suo appoggio Michelangelo aveva potuto all’età di 13 anni tornare a Milano per andare a bottega da Simone Peterzano e apprendere l’arte della pittura nei modi stupefacenti che tutti ben conosciamo.
L’immagine della piazza della cittadina lombarda è una suggestione proposta in modo magistrale dallo storico dell’arte Tomaso Montanari che in queste settimane sta curando una storia di Caravaggio in 12 puntate, in onda tutti i venerdì sera su Rai5 (le prime puntate si possono trovare sul sito rai.tv). Da lì Montanari è partito per narrare una vicenda che poi lui stesso ricostruisce soprattutto partendo dal “corpo” delle opere. Ma è interessante che sia partito da lì, da quella piazza di una cittadina di provincia. Perché è da quel nodo di relazioni, di prossimità sociali che attraversano le diverse classi a cui si apparteneva, da quei legami di fiducia, da quello slancio che portò ad investire sulle capacità intraviste in un ragazzetto scapestrato, che prese corpo una delle grandi avventure culturali capaci di cambiare la storia dell’arte e di segnare anche la nostra storia.
È bello riscoprire Caravaggio partendo da questa periferia, perché diventa un’occasione per riappropriarcene, dopo che la sarabanda commercial-mediatica di questi anni recenti lo ha ridotto a feticcio, a fenomeno da baraccone buono per tutte le idee più scriteriate. Ma a che pro riscoprire Caravaggio? È solo un problema di ristabilire una correttezza filologica o invece attraverso Caravaggio possiamo capire meglio chi siamo e a quale straordinaria storia apparteniamo? È su questo punto infatti che il percorso immaginato da Montanari si fa più interessante e culturalmente dirompente. Riprendersi Caravaggio, conoscerlo con precisione partendo dal “corpo” delle sue opere, significa riscoprire l’immensa dignità e bellezza dei corpi, nella loro dimensione concreta e reale.
La sua infatti è una pittura dominata dalla presenza dei corpi, che Caravaggio mette sulle tele senza schermi, senza timori e a volte anche senza pudori. Tutto questo genera una bellezza palpabile che affascina, che conquista, che non sente il tempo, come fosse cosa di oggi. Si dirà che Caravaggio è un genio e come sempre accade per i geni alla fine risultano un po’ come dei mondi a parte, figure imprendibili, che nessuna somma di fattori può mai spiegare. Anche Caravaggio appartiene a questa categoria, ma come accade con Giotto e come anche con Masaccio, è un genio dall’identità particolare, che gioca sempre a carte scoperte. Verrebbe da dire che è genio non solo per sé ma per tutti, per noi. È un genio con un destino pubblico che prevale nettamente su quello individuale. Per questo è sempre importante rifarsi all’immagine di quell’italianissima piazza che gli aveva permesso di diventare quello che poi diventò.