“Gentile signore, sono rimasta delusa dalla sua decisione di non scrivere nulla a proposito di ‘The March of Hope’, uno degli avvenimenti più significativi che si siano tenuti in Israele da anni. Lei dice che la marcia organizzata dal Women Wage Peace non interessa al suo giornale, che lo spazio viene dato a cosa succede in altre parti del mondo. Non mi sorprende che il mondo non sia interessato a migliaia di donne che in Israele marciano per la pace”. Queste le amare parole contenute in una lettera aperta che appare sul sito del WWP, rivolte a un inviato della stampa estera in Israele. 

Una lettera aperta dove si prende atto con rammarico che nessun giornale o sito occidentale (con l’eccezione della rivista online italiana “Il Paese delle donne”) abbia scritto una sola riga a proposito di un avvenimento straordinario che ha avuto il suo picco alla metà dello scorso ottobre, The March of Hope, la marcia della speranza, a cui hanno preso parte migliaia di donne israeliane, palestinesi, arabe, cristiane, ebree e musulmane. Tutte insieme per chiedere la fine di ogni ostilità tra Palestina e Israele e quella cosa che tutti citano continuamente spesso blaterando slogan usa e getta: la pace. Certo, in un mondo dove gli atti di terrorismo accadono ormai di continuo, anche alla vigilia di Natale e nella notte di Capodanno, l’attenzione dei media si concentra su questi tragici avvenimenti che caratterizzano la “terza guerra mondiale a pezzi”. Ma cosa è veramente più forte e cosa incide di più sulla realtà?

Nell’estate 2014 durante l’escalation di violenza tra Israele e Hamas, culminata nell’operazione militare “Tzuk Eitan”, un gruppo di donne ebree e palestinesi di religione musulmana, cristiana ed ebraica fondano il movimento Women Wage Peace, “donne impegnate per la pace”. Alla base, il desiderio di opporsi in modo concreto a due visioni ideologiche parimenti fallimentari in atto in Medio Oriente: la costruzione dei muri, gli insediamenti forzati di coloni, la segregazione, la povertà; dall’altra l’educazione alla violenza e l’odio, l’intifada, il terrorismo. Queste donne, sottolineando il loro ruolo di madri e portatrici di vita, si sono invece messe insieme per chiedere la pace, ora. Con una sola richiesta sostanziale: “Che i nostri leader politici lavorino con rispetto e coraggio, includendo la partecipazione delle donne per trovare una soluzione al conflitto. Solo un accordo politico onorevole può assicurare il futuro dei nostri figli e nipoti”.

Si muovono in modo semplice e spontaneo. Ogni due giorni, una donna del gruppo apre la sua porta ad altre che abbiano voglia di parlare e discutere. Ogni venerdì centinaia di attiviste scendono agli incroci principali delle città più importanti del Paese fermando le macchine, offrendo nastri azzurri ai passanti e invitando alla possibilità di fare pace.

Il movimento non ha leader, si coordina tramite i social network organizzando incontri in tutto il Paese. Così nell’agosto 2015, a Tel Aviv, si tiene il primo di questi a cui partecipano una trentina di persone. In un mese, diventano mille. Nascono eventi di vario tipo a cui le donne sono invitate con questi messaggi: “Portate le vostre amiche, sorelle, madri e figlie. Sono benvenute anche le bambine, considerato che noi chiediamo pace e armonia per loro”.

Il 25 novembre 2015 hanno marciato compatte fino alla frontiera Gaza/Sderot, luogo simbolico del conflitto tra Israele e Hamas.

Tutto questo ha generato un primo miracolo, nel silenzio di cui abbiamo detto prima. Il 4 ottobre 2016 con una serie di eventi, inizia il progetto “Marcia della Speranza”, un invito a muoversi verso Gerusalemme dai “quattro angoli di Israele”. Dentro ai loro rispettivi confini, prendono parte a questa iniziativa anche migliaia di donne palestinesi e giordane. Tra i tanti momenti significativi, l’incontro di preghiera sulle rive del fiume Giordano. A Gerico invece si sono incontrate in 2mila, tra cui molte donne palestinesi. Micro-marce ovunque a cui, secondo gli organizzatori, hanno preso parte circa 20mila donne, tra cui il premio Nobel per la Pace Leymah Gbowee, guida del movimento non violento composto da donne cristiane e musulmane che ha portato alla fine della guerra civile in Liberia. 

Marce culminate il 19 ottobre scorso con l’arrivo di circa 15mila donne davanti alla residenza del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Dal palco, Gbowee ha detto: “Fare la pace è una cosa difficile, richiede un prezzo. Richiede di avventurarsi in luoghi che non avete mai immaginato assieme alle vostre sorelle palestinesi. Vi farà perdere amici e sacrificare la famiglia”.

C’è un video molto bello che documenta tutta questa movimentazione. In esso la cantautrice israeliana Yael Deckelbaum, che ne è la curatrice, invita amiche e colleghe di tutte le religioni e i settori della società israeliana a prendere parte all’iniziativa. Poi tutte insieme cantano il brano diventato simbolo del movimento, Prayer of the Mothers, “La preghiera delle Madri” (“da nord a sud, da est a ovest, ascoltate la preghiera delle madri, date loro la pace”), mentre scorrono le immagini delle donne che marciano.

Il movimento si è dato quattro anni di tempo per spingere il mondo politico a firmare la pace.

Sono delle illuse? Lo vedremo. Una cosa è certa però: dicono una verità semplice e scomoda. E ascoltandole non si può evitare di pensare che tutta la questione della pace giri intorno alla posizione che prendiamo davanti a questa loro richiesta. Perché queste donne vivono già in pace, insegnano a tutti come la si costruisce: guardandosi negli occhi, perdonando le violenze reciproche, lasciando giocare i propri figli insieme. I diplomatici e i politici sono necessari, perché la pace si costruisce anche con gli accordi e con l’arte del compromesso, ma occorre che discutano avendo negli occhi e nel cuore donne come queste. Occorre che facciano il loro lavoro, lasciandosi cambiare da questa testimonianza che ridà speranza. 

E’ già successo in passato. Popoli nemici che si sono combattuti per secoli come i Barbari e i Romani hanno smesso di massacrarsi a vicenda, alla fine “vinti” da gente del popolo stranamente operosa e mansueta o stupiti per il modo diverso di vivere irradiato da piccoli e sconosciuti conventi o anonime persone caritatevoli. E nel corso dei secoli uomini tenuti in carcere come Nelson Mandela, Lech Walesa, Vaclav Havel, il cardinale vietnamita François Nguyên Van Thuân e tantissimi altri di cui non conosceremo mai il nome hanno mostrato come la testimonianza di personalità “arricchite” dalla pace possa infrangere tutti i muri.