Quando si svegliarono, la realtà era ancora lì. Il problema è se la realtà è come il dinosauro del racconto di Augusto Monterroso o un animale meno minaccioso e frustrante. Immaginiamo cosa significhi avere davanti un diplodoco lungo trenta metri, la minaccia che comporta se vogliamo sentirci minimamente liberi. Molti catalani, martedì scorso, visto che la secessione non era stata chiaramente proclamata, ritenevano che il diplodoco fosse ancora lì. Alcuni che lavorano i campi hanno avuto la radio come compagna quel pomeriggio, altri hanno chiuso l’azienda prima, tutti erano attaccati al cellulare. L’indipendenza non è stata dichiarata, ma sospesa dal presidente della Generalitat. Frustrazione e rabbia.
La realtà era ancora lì. 540 aziende hanno cambiato domicilio perché non vogliono stare dove non c’è certezza giuridica. La Catalogna si è trovata senza grandi banche, la grande destinazione turistica che è Barcellona ha visto ridursi drasticamente le proprie entrate. La grande borghesia che “ha fatto il paese” e che è stata ambigua per così tanto tempo ha chiesto di schiacciare il freno. Il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha chiesto che venisse rispettato l’ordine costituzionale. Qualche ora dopo, il Presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha reso ancora chiaro che non voleva una Catalogna indipendente perché non voleva un’Europa di 98 Stati. Perché – Juncker non lo ha detto esplicitamente, ma lo sappiamo tutti – la costruzione europea è stata, con tutti i suoi limiti, lo sforzo più intelligente mai fatto per superare quell’inganno che è il nazionalismo, che ha portato milioni di giovani ad arruolarsi in diverse guerre come se fossero in paradiso, ma che poi li ha portati alla morte, mutilati nell’anima e nel corpo nelle profondità delle più scure trincee.
Perché questi venti di nazionalismo tornano a soffiare così forti in Europa? La lettera della Cup, la formazione anti-capitalista che sostiene la Generalitat, in cui si chiede già la Repubblica catalana, consente di comprendere il processo. È in gioco, spiega la lettera, la possibilità di essere felici. “Andremo avanti – c’è scritto – senza il sostegno dei mercati e degli Stati, senza grandi ricchezze naturali e senza potenze economiche a sostenerci, ma lo faremo con le persone e con le loro speranze e con tutta la loro dignità”.
È necessario autodeterminarsi rispetto alla realtà, a questa Spagna e questa Europa, ai suoi mercati e ai suoi stati, affinché la speranza si compia. Questo è il problema di fondo. Come racconta il libro dei Giudici, dopo la morte di Giosuè ci fu una generazione che non conosceva l’opera della liberazione dall’Egitto e l’attraversamento del deserto. Giosuè è morto e una buona parte della nuova generazione europea non è stata educata in una tradizione viva che sostiene la democrazia, quella tradizione che ha dato il coraggio di ammettere le imperfezioni e su cui è fondata la democrazia. Il suo posto è stato occupato da un’ideologia liberale, talvolta socialdemocratica, che riempie tutto con gli stati e i mercati, le burocrazie e le amministrazioni impersonali, con gli interessi trasformati negli unici motori della storia.
Un’ideologia che non si adatta al protagonismo personale. Tutto tende a essere pervaso da un volontarismo asfissiante senza orizzonte a livello personale e da una passività cinica e rancorosa a livello pubblico. La realtà è un grande diplodoco, una fonte di frustrazione, se non c’è esperienza di una costruzione concreta (nella carriera lavorativa, nel servizio pubblico, nelle imprese, nel volontariato) che faccia scorrere l’intensità realista del desiderio. Senza questa esperienza in cui la realtà appare limitata, sì, ma anche ricca, popolata di volti che riempiono la vita, di possibili cambiamenti, di dialoghi, piena di una fecondità paziente che fa amare istantaneamente, senza che per forza sia necessario uccidere il dinosauro. E associare la dignità a un’analisi moralistica e al sogno senza garanzia di ciò che verrà.
Manca il rispetto per la legge e lo Stato, è vero. Ma la crisi ha rivelato che manca la percezione che la realtà, così com’è, non è una presa in giro. La volontà di indipendenza a qualsiasi costo e il nazionalismo sorgono da un uso della ragione che non riconosce alcuna positività nel reale. Per questo occorre fuggire. Verso un mondo in cui gli altri non esistono. Non si risponderà alla sfida, in tutta la sua profondità, con bandiere di colore diverso o con richiami a una storia che per molti è un pezzo da museo, un pretesto per la dialettica. Non si riconosce in forma meccanica che stare con gli altri, convivere con la differenza, aprirsi all’universale attraverso le circostanze e la storia in cui si è venuti al mondo, è qualcosa di positivo. Per troppo tempo abbiamo dato per scontato quel pilastro della democrazia. Ora è chiaro che è necessaria un’educazione. Non solo al patriottismo costituzionale, all’acquisizione di più dati o di più empatia, ma un’educazione personale e sociale che ci leghi tutti di più a quello che abbiamo a portata di mano. Che ci faccia riconoscere e sperimentare che le cose concrete non sono una condanna, ma una promessa.