Karl Marx, se fosse vivo, direbbe che oggi i giovani costituiscono un esercito industriale di riserva così numeroso per via del forte tasso di disoccupazione, e che i capitalisti hanno buon gioco a sfruttare manodopera sottopagata e senza tutele. Marx non è vivo, ma non ha tutti i torti, almeno a riguardo di svariati settori, e non solo call center: da certi studi professionali a certi lavori agricoli, dai servizi di consegna a domicilio ai garzoni di bottega. L’affermazione della dignità del lavoratore, anche se giovane, e il contrasto alle nuove forme dell’ingiustizia e dello sfruttamento sono valori da non rottamare, anzi da riprendere con vigore. La sicurezza del lavoro deve essere — e non lo è — al centro delle politiche economiche e sociali. Pensare di garantirla col posto fisso nell’epoca del lavoro liquido, però, non ha senso né efficacia.

In questo weekend ha fatto parlare di sé una vicenda non di grandi dimensioni, ma significativa: quella di Almaviva che ha deciso di trasferire 65 dipendenti (su 500) dal call center di Milano a Rende, in Calabria (provincia di Cosenza). Vicenda che è finita nel Caffé sulla prima pagina del  Corrierone, dove le notizie sindacali sono come mosche bianche; e rimbalzata sulla scrivania del ministro Calenda, che ha chiesto e ottenuto un time-out e l’immancabile tavolo. Il Caffè, meritorio per scelta del tema, descrive il tipo dell’operatore di call center come piace a molti sentirselo raccontare: è un 35enne che è lì da anni in attesa di qualcosa di meglio che non è mai arrivato, fa un lavoro da schifo (molesta telefonicamente sconosciuti e fa da capro espiatorio), nessun partito si occupa di lui, gli si chiede di spostarsi in un’altra parte della penisola, non ha prospettive di crescita professionale. Insomma, un personaggio dei “vinti”, ineluttabilmente vittima del “sistema” cattivo, la cui sola dignità è nel rifiutare l’accordo sindacale.

Ma questo giovane che attende, non vuole spostarsi, spera che un partito lo difenda, ecc. è in realtà vittima di se stesso più che del sistema. Il guaio maggiore non è nelle condizioni esterne ma nella sua palese incapacità di affrontarle. La colpa del “sistema”, semmai, è quella di non aiutarlo a crescere come soggetto, come persona,  attrezzandolo non a vincere la lotteria e stare tranquillo per il resto dei suoi giorni, ma a percorrere i passi di un’avventura. 

In effetti c’è un fenomeno palese e per lo più trascurato: sempre più giovani il lavoro non l’hanno mai visto e non sanno che cos’è; quando lo trovano lo subiscono di malavoglia perché non è quello che cercavano; se gli capita uno stage, non è detto che trovino chi è disposto a dar loro del tempo per insegnargli pezzi del mestiere. Questo è un problema, non l’inesistente “sfruttamento delle multinazionali del lavoro gratis degli studenti” denunciato a colpi di slogan. Non si può mica fargliene una colpa, intendiamoci, a questi ragazzi: vengono su con l’aria che respirano e i modelli che vedono. Invece occorrono percorsi di accompagnamento al lavoro, formazione permanente, presenza di maestri, gusto del lavoro ben fatto. Dove questo accade, i risultati si vedono: uomini in movimento, non amebe in acque stagnanti.