Pochi ormai lo conoscevano, e quasi nessuno si è accorto della sua scomparsa, lo scorso 9 ottobre, in un paesino delle Prealpi bergamasche. Eppure Jurij Mal’cev è stato uno dei protagonisti storici del dissenso in Urss, oltre che per molti anni insegnante di lingua e letteratura russa alla Cattolica di Milano.

Nato a Rostov sul Don nel 1932, docente di italianistica all’Università di Mosca, nel 1964 aveva dichiarato di rifiutare la cittadinanza sovietica e di voler emigrare. “Voglio lasciare questo paese – aveva scritto nel suo esposto – perché, come letterato, non ho alcuna possibilità di occuparmi della mia materia. Non accetto l’ideologia ufficiale sovietica, non credo nel comunismo… e per questo, in un paese che proclama come principio vincolante la partiticità dell’arte, sono condannato all’eliminazione spirituale”. 

Nel 1967 era stato tra i fondatori del “Gruppo di iniziativa per la difesa dei diritti dell’uomo”, e per questo motivo venne licenziato dall’università (per sfuggire all’accusa di “parassitismo” lavorava come postino). Finché gli venne recapitata l’ingiunzione di recarsi il mattino del 17 ottobre 1969 al presidio di leva, per quella che sembrava una banale formalità burocratica, e che si trasformò in realtà in un mese di internamento coatto in ospedale psichiatrico.

Questa esperienza allucinante Jurij Mal’cev l’avrebbe descritta in un lungo racconto tuttora inedito in italiano, dove un’umanità desolata – ombre e fantasmi vaganti al confine tra follia e ragione – si mischia all’ancor più assurda “normalità sovietica”… Come spiega un’infermiera del reparto a uno dei pazienti: “Dissidente significa persona che pensa diversamente da tutti gli altri. Vede tutto non come lo vediamo noi, capisce tutto diversamente, sbagliato. La pensa diversamente. Insomma, è uno che dissente. Capisci? Per questo lo mandano al manicomio”. 

Oppure, un’altra infermiera che trova normalissimo che Jurij sia in cura per la sua volontà di emigrare: “Ah, non importa, adesso è qui da noi, la guariranno – mi disse in tono rassicurante. Io la guardai sorpreso. Guarirmi dal desiderio di andare all’estero? Chi di noi due è pazzo: io o lei? È da considerare malato un uomo che voglia andare in un paese che gli interessa, oppure è malata la situazione in un paese dove questo desiderio sia ritenuto un crimine?”.

“Eppure lei, da quanto capisco, per carattere non è un combattente. Ma come ha fatto a risolversi a un passo del genere?” – gli chiederà il primario del reparto alludendo alle sue scelte di impegno sociale. “È vero, nelle situazioni contingenti, nella vita quotidiana, sono effettivamente abbastanza passivo – risponde Mal’cev –. Ma quando si tratta delle mie più intime convinzioni, qui sono irremovibile e pronto ad affrontare qualsiasi sacrificio. – Qualsiasi sacrificio? – chiese il professore, animandosi, e mi guardò con attenzione. Evidentemente, attribuiva una particolare importanza a questa mia risposta e voleva risentirla di nuovo. – Qualsiasi sacrificio, – risposi fermamente”.

È il ricordo che ci portiamo di quest’uomo, molto riservato, refrattario a qualsiasi tipo di pathos e di retorica, eppure animato dallo spirito di servizio alla verità, costi quel che costi (“Solo gli stupidi cercano la verità, chi è furbo cerca la tranquillità”, era un proverbio russo che amava ripetere). Uno spirito di servizio alla verità che, una volta emigrato nel 1974 in un’Italia ancora in preda all’ubriacatura ideologica comunista, l’avrebbe reso tutt’altro che popolare anche nel nuovo contesto. Non gli era stato facile conquistarsi un posto di lavoro, aveva trovato davanti a sé muri di sospetto, di incomprensione per quella che sembrava a tanti un’opera di denigrazione del grandioso esperimento sovietico.

Se Mal’cev era lucidissimo nel denunciare i mali del comunismo, il suo servizio alla verità non si è certo fermato qui, ma ha affermato e testimoniato il “ridestarsi della Russia dal profondo letargo della notte staliniana”. Nel volume L'”altra” letteratura (1957-1976), da lui scritto a ridosso del nascere e svilupparsi del samizdat (editoria clandestina), e pubblicato da Russia Cristiana, ha fatto conoscere all’Occidente il grandioso emergere di un fenomeno letterario che, come osservava lui stesso, segnava “l’avvento di un’epoca nuova, che si distingue nettamente dall’epoca che l’ha preceduta. Il diffuso fermento culturale, la necessità di ripensare l’esperienza degli ultimi cinquant’anni (il tentativo di dare vita a una società nuova, a una cultura nuova, a una morale nuova, all’uomo nuovo) e, ancora, l’aspirazione a uscire dall’isolamento culturale che nel corso di alcuni decenni ha tenuto artificiosamente il paese lontano dal resto del mondo civilizzato, l’aspirazione a far propri i valori spirituali creati in questo frattempo dall’Occidente, l’esigenza di idee nuove e di nuove forme che diano loro espressione: tutto ciò, non potendo trovar posto nei limiti della censura, non ha tardato a riversarsi nel samizdat“.

Alla salvaguardia e allo studio di questa cultura, che ha fatto conoscere a generazioni di studenti e di lettori, ha dedicato umilmente e tenacemente la vita, restando nell’ombra perché emergessero i giganti letterari – da Pasternak a Maksimov, a Solženicyn a Sinjavskij e Šalamov – che hanno permesso all’uomo sovietico di restare uomo.