Quando uno scrive, in fondo parla implicitamente anche di se stesso e a volte esplicitamente; mi sia permesso farlo anche oggi. Se in questi giorni noto con particolare attenzione i segni evidenti dell’incipiente autunno, se mi urge in modo acutamente ficcante l’esigenza di non perdere tempo, se un leggero sgomento accompagna l’accorgersi di un nuovo piccolo acciacco da aggiungere alla lista che da qualche tempo ho cominciato a compilare, è perché due giorni fa ho compiuto sessant’anni. Oggi è considerata un’età “tardo adulta” (diceva un articolo di giornale l’altra settimana); per l’amor del cielo non si parli di vecchiaia; è evidente perché: il “tardo adulto” è ancora nel glorioso novero dei consumatori a tutto campo, mentre il vecchio spende praticamente solo in medicinali, finché diventa così tanto vecchio – e dispendioso per la società – che bisogna pensare e “scientificamente dimostrare” che è meglio per lui che lo si aiuti a togliere il disturbo.
Sessant’anni, dunque, sono considerati un’età ancora pienamente attiva, ed effettivamente i calcoli che mi hanno fatto dicono che mi mancano altri dieci anni di lavoro prima di poter prendere la pensione. Eppure nella mia percezione – forse perché mia madre a questa spoglia non è arrivata e mio padre l’ha superata di poco – avere sessant’anni significa cominciare ad essere davvero vecchi. Non lo dico con rammarico, tantomeno con tristezza o sconforto. Ma non voglio far finta che non sia successo niente. Per esempio, ho molti progetti editoriali in mente e di ampio respiro; da tempo sogno (tanto per svelarne uno) di poter pubblicare un’ampia antologia della prosa di Charles Péguy, che in Italia è di fatto assente mentre, secondo me, il suo pensiero è un formidabile strumento per capire il nostro presente sia come società che come Chiesa ed è un prezioso grimaldello per scardinare preconcetti, deviazioni, falsità di cui spesso non ci accorgiamo; è un progetto già avviato, ma i sessant’anni da un lato mi mettono fretta per fare in tempo (a Dio piacendo, come si usava dire) e dall’altro mi danno quella leggerezza distaccata per cui se non ce la farò, pazienza.
Qualche giorno fa la liturgia ambrosiana proponeva la lettura di un pezzo della seconda lettera di san Pietro, precisamente quello nel quale si dice che “davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo”. Non l’ho percepito come l’azzeramento d’ogni significato del tempo, ma al contrario come la valorizzazione di ogni giorno che – diversissimo da infiniti punti di vista a venti piuttosto che a sessant’anni – vale un’eternità. Penso, infatti che il paragone numerico di san Pietro non sia quantitativo, ma indichi un salto di qualità. Per questo è supremamente confortante quanto l’apostolo aggiunge subito di seguito: “Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza”. È vero: quasi per forza, quando si diventa vecchi, si ha l’impressione che i desideri della gioventù non si siano realizzati del tutto, che l’amore sia stato più piccolo di quanto sperato, la dedizione più meschina, la conoscenza più limitata. Ma questi – nella stessa formulazione: “quanto”, “più” e “meno”– son tutti elementi quantitativi e invece la consapevolezza dei sessant’anni aiuta a spiccare il volo nell’aria ben più respirabile della gratuità che non calcola più.