Ha fatto scalpore questa settimana la lettera che Almaviva, azienda di call center per nulla in difficoltà economica, ha mandato a 65 suoi dipendenti per comunicare il loro trasferimento da Milano alla Calabria. “Licenziamento mascherato”, lo hanno chiamato in tanti, usato come rappresaglia per un mancato accordo sindacale che avrebbe peggiorato il trattamento dei lavoratori.
Il fatto è accaduto pochi giorni dopo l’assegnazione del premio Nobel per l’Economia a Richard Thaler, la cui lezione più importante – come citato nell’editoriale di venerdì scorso – è che “l’agente economico sono gli esseri umani e che i modelli economici ne devono tener conto”. Gli uomini sono sia il soggetto che i beneficiari di un’iniziativa economica e massimizzare produttività e profitto non può andare a discapito dei suoi protagonisti. O, in altre parole, non può andare a favore di qualcuno e a svantaggio di qualcun altro.
Eppure questa è la stortura a cui assistiamo impotenti ogni giorno, non solo nei Paesi più poveri, ma anche nelle dinamiche delle economie avanzate. Pensiamo alle donne che vengono emarginate quando tornano al lavoro dopo la maternità, o in generale, a chi viene obbligato – soprattutto i giovani – a orari disumani con il ricatto di contratti da rinnovare. L’appartenenza all’azienda viene brandita ideologicamente come un ideale da rispettare e a cui sacrificare altri legami, affettivi o ideali. E non solo i trasferimenti, ma molto più spesso i licenziamenti di massa sono la strategia assunta da molte multinazionali non per salvarsi dal fallimento, ma semplicemente per aumentare i dividendi agli azionisti.
Questa concezione si riflette nelle leggi. Mentre giustamente si prevedono ammortamenti o super ammortamenti per l’investimento in macchinari che permettono di adeguare la produzione alle nuove necessità, nulla di simile è previsto per le persone. Nonostante l’inconfutabilità del nesso tra qualità e quantità dell’istruzione e produttività, nessun legislatore ha pensato che si debbano ammortizzare i costi quando si manda un dipendente o un figlio a fare un master o un dottorato magari all’estero.
E ancora, per toccare l’ambito della salute, sebbene secondo l’Organizzazione mondiale della sanità da quest’anno la malattia più diffusa è quella mentale, la legislazione sul lavoro continua a tutelare solo la malattia acuta e di durata limitata. Nulla è pensato ad esempio rispetto a quel cancro dello spirito che è la depressione che richiederebbe un lento e progressivo reinserimento.
Anche situazioni nate per tutelare maggiormente i lavoratori, come il caso del posto fisso nel pubblico, spesso non si sottraggono a questa mancanza di considerazione per le persone, quando ad esempio tutelando assenteismo e mancanza di efficienza, alla fine, si crea ingiustizia. Infatti, la passione e la voglia di fare di molti viene mortificata dall’egoismo di alcuni, tra cui anche di sindacalisti che si battono per un egualitarismo nemico di passione e merito. Pensiamo alla scuola dove si uccide la professionalità insegnante appiattendo stipendi e scatti di carriera.
Tutto quanto descritto non è un caso ma ha radici profonde.
L’economia si basa ancora su una concezione distorta di razionalità settecentesca secondo cui l’egoismo dei singoli, che semplicemente perseguono il proprio tornaconto personale, assicurerebbe, grazie a una sorta di mano invisibile il benessere collettivo. In realtà non è così.
Ogni evidenza empirica sembra confutare quella che è veramente una favola perché non esiste nessuna mano invisibile. L’egoismo individuale e collettivo provoca in realtà ogni tipo di disfunzione: malcontento, sfruttamento, disuguaglianze, distruzione dell’ambiente, guerre, emigrazioni forzate di popoli e quant’altro.
E non sta più in piedi neanche la giustificazione secondo cui questo modo di agire porta almeno sviluppo. La finanziarizzazione globale e speculativa, la riduzione europea dell’economia a vincoli di bilancio di pareggio senza politica di sviluppo, la perdita del desiderio di rischiare e creare novità generate da concezioni egoistiche senza ideali hanno portato a una crisi strutturale e senza fine.
Come reagire? Non certo con un utopico e impossibile ritorno a una economica arcaica senza profitti. Nessuno ha risposte esaustive ma si può, personalmente e collettivamente, prendere sul serio quanto dice Thaler non facendo fuori l’economia di mercato ma cambiando l’idea di razionalità. A muovere una attività economica può essere non l’egoismo ma un desiderio di felicità non ridotta e “socializzante” in grado di conciliare il benessere collettivo e l’utilità individuale (come disse già nel 1955 un altro premio Nobel, Kenneth Arrow).
Molti sono gli esempi già sotto i nostri occhi: le imprese che, nei rapporti con i lavoratori e negli orari flessibili, tengono conto del fatto che essi hanno tanti interessi nella vita, dalla maternità ai legami personali, sociali, religiosi e non li abbandonano nei momenti di difficoltà e malattia; le realtà che valorizzano creatività e passione delle persone con modi di lavorare non standardizzati; le multinazionali che non licenziano quando fanno acquisizioni, ma scommettono sull’incremento del fatturato conservando i posti di lavoro; le imprese che non cercano guadagni speculativi di breve periodo ma scommettono sull’incremento del capitale umano dei loro dipendenti, sulla soddisfazione dei clienti per i buoni prodotti e dei fornitori per pagamenti e affidabilità, sul rispetto di ambiente e territorio… Non si tratta di trasformare l’azienda in attività caritativa ma di scommettere sul fatto che in questo modo si farà anche più profitto di lungo periodo perché il lavoratore, rispettato e valorizzato, sarà il primo alleato e compagno dell’azienda sentita come un bene comune. Qualunque capitalista, sindacalista o politico punti ancora sulla razionalità egoista e sulla lotta di classe umiliando in qualunque modo i lavoratori, fa il male anche del sistema nel suo complesso e, alla lunga, anche il suo.