Il dono di perdonare se stessi

Un segno dei tempi è che oggi la domanda che abbiamo dentro emerge con modalità inaudite che ci scandalizzano. Non sappiamo più leggerla e questo ci manda in crisi. FEDERICO PICHETTO

L’altro giorno, a pranzo con alcuni amici, è emerso — tra il serio e il faceto — l’imbarazzo di un genitore credente che non sapeva se permettere ai propri figli di guardare o no X Factor, ritenendolo uno spettacolo “demoniaco”. L’episodio, per quanto marginale, racconta di una difficoltà importante che si è aperta nella vita della Chiesa dopo le dimissioni di Benedetto XVI. Viviamo in un momento storico in cui sempre di più le azioni delle persone che ci circondano sconcertano e lasciano frastornati. Un amico l’altra mattina mi scriveva se avevo visto la foto della scultura regalata dal Papa alla Fao, denunciandola come teologicamente inappropriata in quanto l’Angelo rappresentato, che dovrebbe godere della gioia eterna, era stato scolpito come “piangente”. Si è assistito, in questo quinquennio, ad un continuo “controcanto” rispetto ai gesti del Papa, che ha instillato in una porzione crescente del popolo di Dio una sorta di sfiducia, di pregiudizio genuino ma ostinato verso le parole e le azioni del Pontefice. 

Il punto non è scatenare una guerra di posizioni, ma cercare di capire dove stia il bandolo della matassa. Al di là delle considerazioni di ordine generale, quello che emerge sempre di più come faticoso è la capacità di leggere i comportamenti degli altri come “sintomi” di un grido. Questo accade perché si ritiene che ad una posizione morale autenticamente religiosa dovrebbero corrispondere atti sempre puri e scevri da ogni ambiguità. Il fatto di credere, insomma, o di cercare lealmente una risposta al dramma della vita, implicherebbe automaticamente una rettitudine etica senza errori e senza ombre. Ma la vita non funziona così e quello di cui ci accorgiamo sempre più frequentemente è che il grido dell’uomo, grido di felicità e di infinito, si manifesta nel cammino dei singoli in modi sempre nuovi e inaspettati. La domanda che abbiamo dentro emerge con modalità inaudite che ci scandalizzano. La rabbia sul lavoro, la fragilità nelle relazioni, le attrazioni comunemente ritenute “irregolari” per altre persone, l’uso distorto del corpo o dei soldi, nascondono il desiderio impacciato di un Bene, di un Tu, che diventa sempre più difficile da riconoscere. 

Il guaio è che questo accade nei confronti degli altri perché accade dentro di noi: è riguardo a noi stessi, anzitutto, che non sappiamo più giudicare quello che proviamo, o che ci troviamo addosso, come il sintomo di un anelito più grande e più vero. Censuriamo intere “regioni” del nostro cuore o della nostra personalità giudicandole meschine, rozze, immorali, senza comprendere che sono quelle le ferite attraverso cui Dio ricomincia il dialogo — nella carne — con ciascuno di noi. 

L’esito è dunque una totale incapacità di giudizio e una visione manichea della realtà: il bene e il male emergono come ben distinti e ogni cosa deve per forza essere catalogata o come bianca o come nera. 

Viene in mente il ragazzo di Roma che ieri, a tredici anni, si è suicidato nella propria scuola media o l’uomo che ieri sera ha cercato di sterminare tutta la sua famiglia a Como: quanto male si fa perché si è alla ricerca di un po’ di bene! Quanto male ci facciamo perché siamo tormentati da una nostalgia tremenda del Mistero dell’Essere! 

Quello che ci ha insegnato il Papa in questi cinque anni, con quel suo modo così semplice e spiazzante di incontrare tutti, è proprio il fatto di saper riconoscere nei gesti degli altri, nelle loro scelte e perfino nelle loro pretese, i sintomi di qualcosa che viene da Dio. Chi non coglie questo, chi non prova a cogliere questo, si perde il meglio della vita. Oltre il bianco e il nero, infatti, c’è il grigio, c’è una zona dove le azioni non perdono la loro oggettività, ma dove questa oggettività è guardata insieme alla storia e al cammino del soggetto che la compie. Questo non muta il giudizio morale sull’azione, ma conferisce ad essa il valore di “gesto”, di un atto che porta con sé un percorso, una strada con la quale è importante e decisivo entrare in dialogo. 

Quando vedo cantare i ragazzi di X Factor è a questo che penso sempre: come in uno spettacolo totalmente costruito, la domanda del Mistero possa giocare ancora un ruolo decisivo fino ad esplodere in una sconcertante bellezza. Io non so se questo sia il modo giusto di guardare le cose. So solo che, così facendo, alla sera mi capita spesso di andare a letto più consapevole e più commosso. Più grato e più lieto. Forse, e questo veramente mi stupisce, più pronto anche a perdonare. E non parlo del mondo intero: il miracolo che accade, infatti, è che mi succede — di tanto in tanto — di iniziare a perdonare me stesso. Riconoscendo in quello che sono un dono e un Mistero, un’umanità tormentata alla ricerca del volto di Dio.

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