L’Unione europea, con i suoi massimi rappresentanti, è venuta a sostegno di uno dei suoi Paesi membri in un momento in cui la sua sovranità è stata contestata. Una messa in discussione di lingua moderna e anima postmoderna. I Presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione sono venuti a Oviedo, per la cerimonia di consegna dei premi Principessa delle Asturie, per sostenere il Re di Spagna (capo di Stato di un membro dell’Unione) e Mariano Rajoy. Lo hanno fatto prima che il governo decidesse di limitare severamente i poteri di autogoverno della Catalogna per imporre l’obbedienza costituzionale. Antonio Tajani, Presidente del Parlamento europeo, ha ricordato il fantasma nazionalista del passato, evidenziando che troppo spesso ci è stato offerto paradiso cambiando i confini, ma siamo stati portati all’inferno. La Catalogna può essere la prima tessera di un domino che il Vecchio Continente conosce troppo bene. “Non voglio un’Europa di 98 Stati”, aveva detto Juncker qualche giorno prima.
Il nazionalismo risorge come formula postmoderna – una formula di neo-sovranità -, come progetto per costruire un’identità alternativa, giustificata da un passato ricreato. E lo fa come tentativo di risposta alle incertezze di un mondo liquido. I giorni di tensione che la Spagna sta vivendo si spiegano con un conflitto di sovranità inteso nel modo più classico. È indicativo che questo conflitto si verifichi quando la globalizzazione e la forza dei mercati sembrano aver sciolto o relativizzato i poteri propri degli Stati. La tradizionale minaccia della perdita dell’integrità territoriale, apparentemente superata perché i nuovi poteri non sono interessati ai territori ma alle anime, ha resuscitato lo Stato classico e le attribuzioni che gli sono state date a Wetsfalia.
Il Governo spagnolo ha fatto ricorso a una misura limite, copiata dalla Costituzione tedesca. Questa misura consente di intervenire e limitare i poteri di autogoverno di uno degli stati federali (in questo caso le comunità autonome). Si tratta di tutelare il diritto di sovranità di tutti gli spagnoli di fronte a un potere che si autoproclama sovrano. La questione è se, a medio e lungo termine, in questo mondo liquido le attribuzioni dello Stato classico siano sufficienti.
Il discorso di Carme Forcadell, Presidente del parlamento della Catalogna, pronunciato qualche ora dopo l’intervento del governo a Madrid, mostra bene quale mentalità fonda la volontà di trasformare l’autogoverno in indipendenza. Forcadell lamentava il fatto che la sovranità del Parlamento catalano era stata violata. La Catalogna, secondo questa mentalità, è già sovrana.
Questa mentalità che attribuisce alla Catalogna una sovranità classica è stata forgiata fin dal XIX secolo. In quel momento ci fu un trasferimento di sacralità. Per lungo tempo le chiese erano piene, ma impercettibilmente il soggetto ecclesiale, come criterio di azione e di affetto, come cultura primaria, venne sostituito dal popolo, dalla nazione catalana. E le chiese si sono svuotate perché quel che è superfluo nella vita viene scartato. La salvezza era già altrove. La “ragione del cuore”, tipica del romanticismo, stava occupando tutto, la volontà di ciò che si vuole essere – e si vuole essere una nazione e ogni nazione richiede uno Stato – stava diventando più determinante dell’identità ricevuta.
C’è un ultimo passaggio senza il quale non si sarebbe prodotto uno squilibrio radicale tra il “farsi” e “l’essere fatto”, sottostante la rivendicazione di autodeterminazione. L’identità occidentale è sempre stata costruita nel dialogo e nella tensione tra “essere fatto” e “farsi”, secondo quanto ha scritto William Corlett nel suo articolo “Self and the Other”. Un’identità si creava partendo dal dato. Si parla, è vero, di una tradizione catalana, dell’eredità del Medioevo, ecc., ma non si tratta di questo. È un fenomeno attualmente diffuso nel mondo: si creano nuove identità religiose, culturali, nazionali, famigliari, in nome del passato, quando in realtà l’eredità della tradizione, della tradizione reale, è stata gettata via. Sono identità create ex novo, postmoderne, figlie della volontà di autodeterminazione, che non è solo il primato della volontà di raggiungere le capacità di un governo pienamente sovrano, ma l’espressione di un “voler farsi” assoluto, del dominio senza troppi complimenti del progetto sul dato.
La globalizzazione con la sua società postmoderna e liquida (la Catalogna è la società più postmoderna e liquida della Spagna e di buona parte dell’Europa) accelera il processo. I vincoli che consentono di “essere fatto” sono spariti e servono nuove appartenenze a cui si possa ricorrere per superare lo smarrimento. E così, tutti insieme, arriva il momento di farsi come nazione e Stato.
Ciò che accade in Catalogna ha dentro una provocazione radicale per tutta l’Europa. Al di là delle misure giuridiche necessarie, non c’è una risposta possibile senza un’identità in cui “l’essere fatto” abbia un peso. È curioso che in quest’epoca in cui l’uomo assolutamente indipendente dall’illuminismo è stato sconfitto, in larga misura, dalla dipendenza dalla neuroscienza, dalla psicologia o dalla biologia, torni il vecchio sogno, in forma romantica (era stato sempre il contrario). C’è un’identità ricevuta, non inventata, una dipendenza positiva che potenzia la libertà, che non è condannata alla violenza del progetto. Si distingue per la sua capacità di universalità.