Al di là dell’uso che se ne farà, i due referendum sull’autonomia del 22 ottobre hanno sortito un effetto positivo importante: quello di avere riaperto il dibattito sulle riforme istituzionali, cioè sulla qualità della macchina politica e amministrativa, che finora è stato troppo sacrificato a logiche politiche di breve respiro. Ma, oltre a questo importante risultato culturale, proviamo a chiederci: che ne sarà, in concreto della vita dei cittadini e delle istituzioni se davvero, come è parso sull’onda dell’entusiasmo per la vittoria del sì, si dovesse intraprendere un cammino verso un’Italia federale?
In premessa, va detto che la stampa estera ha considerato con favore questi referendum, non li ha associati ad esempio a quello della Catalogna, ma li ha letti come un primo passo verso un più ampio progetto di adeguamento del nostro sistema di finanza pubblica. In una parola, gli osservatori internazionali hanno capito che non è in gioco la battaglia di retroguardia delle “piccole patrie”, ma quella della modernizzazione dell’obsoleto assetto istituzionale italiano.
Che l’Italia si muova per cambiare qualcosa delle sue istituzioni ci consentirà di dialogare più alla pari con i partner europei su tutte le questioni che oggi sono sul tappeto, a tutela dei nostri interessi.
Modernizzare i nostri apparati comporta innanzitutto riorganizzare le competenze dei diversi enti locali, regioni e Stato, secondo logiche di efficienza, tentando di eliminare tutte le duplicazioni e le “anarchie” di quello che è stato definito “un sistema policentrico esploso”. Tale riordino deve partire dal basso, dal livello più vicino ai cittadini, ma deve coinvolgere anche il potere centrale, che deve ripensare a quali siano le regole di fondo, il quadro normativo generale entro cui poi far muovere – con maggiore autonomia – i diversi attori del sistema.
Se pensiamo ad esempio a come è stato concepito ed attuato il meccanismo di accesso a prestazioni sociali agevolate (ISEE) subito ci rendiamo conto che da un lato è necessario che vi siano indicazioni nazionali ma, dall’altro, occorre che esso sia commisurato ai servizi reali che gli enti locali forniscono, e anche alla situazione socioeconomica dei diversi territori.
Un altro importante esempio riguarda la sanità. Oltre naturalmente a garantire i “livelli essenziali” delle cure, occorre che lo Stato supporti le Regioni che hanno difficoltà ma anche che “lasci fare”, e di più, prenda esempio da quelle che sono in grado di garantire qualità ed efficienza.
Che lo Stato centrale non faccia tesoro, ad esempio, del fatto che l’eccellenza sanitaria di Veneto e Lombardia non si registra nemmeno in Germania o in Francia, costituisce un assurdo istituzionale che non coglie l’opportunità di diffondere altrove questi metodi virtuosi dissipando risorse.
Una legislazione flessibile, dunque, che ponga i paletti ma che lasci anche spazio alle autonomie per proprie sperimentazioni (controllando però che le scelte non siano dettate da esigenze clientelari). Questo modo di agire può anche essere definito “federale” ma, al di là delle definizioni, è solo un modo più moderno di interpretare il ruolo del potere centrale.
Come si è detto, i due referendum italiani non hanno nulla a che vedere con quello catalano. Il loro obiettivo ultimo infatti non è la disgregazione dell’unità nazionale, bensì il suo rafforzamento attraverso un pieno protagonismo delle realtà locali e una maggiore efficienza dello Stato centrale.
A questo fine, la prospettiva che si dovrà aprire è quella di una più efficace collaborazione tra i diversi livelli di governo, cosa che non è affatto in contraddizione con un incremento dell’autonomia. Meno localismi, meno difese di interessi parziali ma condivisione delle risorse per poter fare massa critica e offrire servizi migliori.
Un esempio può essere dato dalla annosa questione delle province, “eliminate” ma ancora esistenti e attualmente nel limbo: ripensare alle loro funzioni e riattivarle è fondamentale perché un ente intermedio ben funzionante tra i molti enti locali e la Regione, semplicemente serve; le province hanno infatti competenze importanti per i cittadini (strade, edifici scolastici, uffici per il lavoro) che non possono essere lasciate nel nulla, strozzate dalla mancanza di finanziamenti. Questi compiti, in alternativa, potrebbero anche essere lasciati alle Regioni in grado di produrre un disegno razionale, mentre quelle che non sono in grado di farlo, possono richiedere il sostegno dello Stato o di altre Regioni per elaborare tale disegno. Anche questa è sussidiarietà, che ad oggi vede invece il livello centrale (pensiamo al sistema fiscale, ormai ingestibile) dibattersi nel mettere rimedi a singole disfunzioni (vedi l’uso dei fondi europei o la gestione/non gestione delle politiche del lavoro), spesso aggravando la confusione.
Ora, se nell’immediato hanno ottenuto di aver riaperto il dibattito, i due referendum, in prospettiva, possono aver la forza di generare una convergenza politica bypartisan, una alleanza per il meglio, che, ispirandosi alle politiche locali di successo, invogli anche altre Regioni a muoversi in quella stessa direzione. E qualche segno già era apparso: il governo Renzi, ad esempio, aveva guardato alla Lombardia per iniziare qualche timido passo verso la parità scolastica e per stimolare la riorganizzazione di alcuni servizi (ad esempio i servizi al lavoro) sulla scorta dello schema lombardo degli accreditamenti. Questa è certamente una strada “federale”: lasciare che si possa sperimentare per creare modelli utili anche a chi non riesce a produrre nuove strategie di innovazione, a beneficio di tutti.
Veniamo alla questione più spinosa: quella della solidarietà verso le Regioni con meno risorse o più in difficoltà.
Mentre il problema delle realtà efficienti oggi è quello di un pervasivo centralismo che ne blocca le potenzialità di sviluppo, il problema di quelle che versano nelle situazioni peggiori è che lo Stato non ha mai davvero rafforzato lì la sua presenza in modo da innestare pratiche virtuose, affrontare le difficoltà, o supplire all’inefficienza, e non ha mai davvero attivato meccanismi di valutazione quanto all’uso delle risorse, ma è più che altro intervenuto con tagli lineari che hanno penalizzato tutti.
La presenza statale potrebbe esprimersi magari attraverso agenzie governative indipendenti, slegate dai condizionamenti della politica, come in fondo è stata la Cassa del Mezzogiorno, che prima della istituzione delle Regioni aveva ottenuto eccellenti risultati.
E’ vero, la prospettiva sembra ciclopica. Ma si può cominciare da scelte molto concrete e puntuali. Se le Regioni andranno al tavolo col Governo, dovranno individuare da subito su quale settore puntare in prima battuta. Un esempio potrebbe essere la scuola, da agganciare al sistema di formazione professionale riorganizzando il comparto nel suo complesso nella direzione della creazione del terzo canale.
Un altro esempio potrebbe essere la gestione dei beni culturali, un settore – tra i più promettenti e meno valorizzati – profondamente e molto malamente centralizzato (che già in Costituzione era previsto poter essere oggetto di accordi tra livelli di governo). Alla richiesta di competenze occorre affiancare le risorse finanziarie, non concesse in via generale ma finalizzate ai risultati, in modo che si diffonda finalmente anche una cultura della responsabilità.