Ci sono leggi che funzionano finché… vengono ignorate. E’ il caso del fatidico articolo 591 del codice penale applicato all’uscita da scuola dei ragazzi delle medie. Se l’insegnante dell’ultima ora non consegna il pargolo di 12 o 13 anni nelle mani del genitore, commette reato. Precisamente si macchia di “abbandono di persona minore o incapace”. Minore è chi non ha ancora compiuto i 14 anni; mentre 87 ne ha compiuti il testo di legge, chiamato quando piace Codice penale, e quando non piace Codice Rocco, per ricordare che il suo autore era fascista e guardasigilli del Duce. Un buon numero di articoli sono stati riformati, mentre il 591 è rimasto in sostanza lo stesso, compresa la poco accattivante equiparazione tra “minore di 14” e “incapace”.  E’ cambiato invece il contesto sociale e quindi come lo percepiamo e interpretiamo.

Nell’Italia del 1930 (secondo anno, tra l’altro, della grande crisi) l’intento del legislatore non era di far accompagnare i bambini a scuola, ma proibire che minori e incapaci, cioè persone non in grado di provvedere da sé alla propria vita, venissero lasciati al loro destino, in patria o all’estero. Ed è un fatto che all’epoca alunni addirittura delle classi elementari (non delle medie, frequentate da pochissimi), percorrevano chilometri di andata e ritorno senza accompagnamento, a piedi (nudi o con gli zoccoli, e con le scarpe in mano per tenerle in ordine). Avvertiti quanto bastava delle difficoltà e dei pericoli, e sufficientemente responsabilizzati. Nessuna mamma o papà, presi a spaccarsi la schiena nei campi, fu mai accusato di abbandono del minore.

Così pure nei decenni successivi, fino ad oggi. Il genitore che voleva e poteva prelevare i figli lo faceva, chi non lo poteva o non lo desiderava li lasciava tornare a casa da soli. In questo modo un ragionevole compromesso basato sul buon senso consentiva agli insegnanti di aver cura degli alunni fino alla fine dell’orario scolastico e fino al cancello; il resto stava nella responsabilità dei genitori, che — non essendo né minori né incapaci — si suppone sapessero valutare essi stessi meglio del codice Rocco i diversissimi tipi di pericolo potenziale e le specifiche attitudini del figliolo ad affrontarli.

Ora la legge, saggiamente ignorata, piomba alla cieca sulla realtà, come se i genitori, nell’orario di uscita dalle scuole, non fossero costretti altrove per lavoro. Per necessità, non per sfizio. E lo fa, come d’uso in Italia, di carambola, con una sentenza della Corte costituzionale — sezione civile, nemmeno penale — chiamata a pronunciarsi su una sentenza della Corte d’appello del 2009, a sua volta in ordine  a una sentenza precedente di primo grado relativa a un incidente mortale subìto da un ragazzino fuori dalla scuola nel 2003. Dopo 14 anni dall’evento (tempi della giustizia), è appurato — e fa giurisprudenza — che era un po’ colpa del Comune, un po’ della ditta dei bus, e un po’ anche della scuola. Siccome la colpa è una bella donna ma non la vuole nessuno, ecco la grida ministeriale che ribadisce l’obbligo dei genitori a prelevare i figli direttamente o tramite nonni. Sempre ignorando la condizione reale della gente.

Ora ben venga, e presto, un provvedimento che adegui le norme alla ragionevolezza e al buon senso e restituisca ai genitori la dignità di soggetti in grado di intendere e di volere e di esercitare la responsabilità verso i propri figli.

Ma dietro questo pasticcio, quand’anche fosse risolto, c’è una questione irrisolta che non può essere ignorata. Viviamo in una società che, diversamente da quella del 1930, vuole più d’ogni altra cosa che tutto sia “messo in sicurezza”. E’ nato anche il neologismo “securitizzazione” per definire un processo in cui, come spiega Zigmunt Bauman (Stranieri alle porte, pp. 22 ss.), vengono sempre più catalogati alla voce “insicurezza” una serie di fenomeni prima collocati in altre categorie. Con la conseguenza, a me pare, di allontanare da sé il peso della responsabilità e del rischio, addossandolo agli organi di sicurezza o alle istituzioni. Anche quella scolastica, s’intende. Creando separazione anziché cooperazione. Nel nostro caso, cooperazione per lo scopo educativo.

L’ansia della sicurezza come valore dominante, invece, deprime una vera preoccupazione educativa. Questa sembra implica il rischio della libertà, quella lo abolisce. L’educazione esige genitori capaci di accompagnare con mano certa il ragazzo sui sentieri insicuri della realtà, allenandolo all’uso sempre più autonomo della ragione e della libertà. Impresa ardua ed entusiasmante. Alla “messa in sicurezza” bastano mamme iperprotettive e flaccidi papà che la sfida della realtà tendono a rimandare a chissà quando. Facile e deprimente.