Il Procés è finito, ora è il momento dei processi. Procés (processo) è la parola che è stata scelta per indicare tutti i passi, avviati nel 2012, che avrebbero portato all’indipendenza della Catalogna. Il Procés, per il momento, è finito. Il Parlamento catalano venerdì scorso ha approvato una dichiarazione unilaterale di indipendenza, votata senza una buona parte della Camera, un atto fuori legge, senza riconoscimento internazionale e senza alcuna allegria.
Il Governo di Madrid, in virtù delle sue prerogative costituzionali, simili a quelle di qualsiasi Paese con una struttura federale, ha sciolto il Parlamento, ha temporaneamente sospeso le istituzioni di autogoverno e ha indetto le elezioni. Lo ha fatto con un ampio sostegno parlamentare e della Comunità internazionale. I sondaggi mostrano che la decisione è stata presa con il sostegno di una lieve maggioranza dei catalani. C’è un 40% circa, forse più, che, nonostante il mancato rispetto della legge, la mancanza di serietà del Procés, della possibilità che potesse portare da qualche parte, scommette ancora sull’indipendenza. Un dato importante.
La formula scelta da Rajoy per l’intervento in Catalogna è prudente. Di fronte alle voci che lo invitavano a sfruttare la situazione per cambiare tutta l’amministrazione regionale, correggere anni di istruzione nazionalista, controllare per un lungo periodo di tempo gli uffici e i corridoi, il Primo ministro ha optato per un intervento chirurgico che garantisce elezioni rapide, che mette l’indipendentismo di fronte alle sue contraddizioni e che concentra tutto sui risultati elettorali. I partiti che hanno promosso la Repubblica catalana stanno già pensando al modo di partecipare alle elezioni “spagnole”.
Lo Stato non aveva i mezzi in Catalogna per garantire il successo di un intervento profondo e prolungato. Né si può ingenuamente pensare che un governo, andando al di là della legge e potendo contare sul monopolio della violenza, possa far cambiare una mentalità. Se ciò accadesse nel regno della politica, che è l’area in cui il tempo domina in forma quasi assoluta sullo spazio, cosa succederebbe nel campo della sensibilità, del progresso della coscienza di un popolo, del superamento dell’ideologia? In politica talvolta si ha l’ingenuità di pensare che il controllo dei meccanismi dello Stato sia sufficiente a garantire l’adempimento della legge e dei principi che la ispirano. E nel mondo pre-politico succede qualcosa di simile: si pensa che l’esistenza della democrazia presupponga che esistano ancora i valori antropologici che la sostengono. Di fronte a una circostanza difficile sarebbe sufficiente enumerare con chiarezza questi principi, basterebbe dire tutta la verità, in maniera dettagliata (valore della legge, storia dell’unità, ecc.) per far cambiare le cose. In realtà, la verità non si accredita in quanto tale solo perché viene enunciata, ma perché può essere liberamente riconosciuta come la cosa più conveniente dove è stata vissuta come una fonte di mortificazione.
Per questo, dopo il Procés potrebbe essere opportuno riprendere la proposta che sabato scorso Francesco ha fatto nell’importante discorso pronunciato alla Conferenza “(Re)thinking Europe”. In questo discorso il Papa ha invitato, ancora una volta, di fronte alla sfida del populismo a non rispondere occupando spazi, ma animando “processi che generino nuovi dinamismi nella società”. In un’Europa in cui “a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso è in atto un conflitto generazionale senza precedenti”. Consegnando alle nuove generazioni gli ideali che hanno reso grande l’Europa, si può dire iperbolicamente che si è preferito il tradimento alla tradizione. E “al rigetto di ciò che giungeva dai padri, è seguito così il tempo di una drammatica sterilità”. Situazione in cui “alla voce del dialogo si sostituiscono le urla delle rivendicazioni” e “trovano così terreno fertile in molti Paesi le formazioni estremiste e populiste che fanno della protesta il cuore del loro messaggio politico, senza tuttavia offrire l’alternativa di un costruttivo progetto politico” .
In questo contesto di mancanza di memoria, Francesco ha ricordato come un centinaio di anni fa gli europei che non si riconoscevano come una comunità sono finiti nelle trincee. “Da quell’evento impariamo che se ci si trincera dietro le proprie posizioni, si finisce per soccombere”, ha evidenziato il Papa. Anche se questa trincea è “scavata sul lato giusto”, aggiungiamo noi, se non è troppa audacia.
In Catalogna, il Procés si è fermato, ma la metà dei catalani vuole l’indipendenza. In Germania la Merkel è stata rieletta, ma l’estrema destra è diventata la terza forza politica del Paese. In Francia Macron è presidente, ma il Front National è ancora lì. In Austria l’ultradestra sta per entrare nel governo. Qualcuno può credere che una vittoria politica sarà utile nel medio e lungo termine se non si avviano nel mentre processi in cui la verità pre-politica sia qualcosa di più di un catalogo di buoni giudizi e di buoni principi? Francesco ha citato come esempio San Benedetto. I processi aperti dal fondatore dell’Europa hanno richiesto quasi un millennio per dare frutti.