Se si guardano gli indicatori economici — quell’uno virgola di Pil in più che gli analisti calcolano — c’è la ripresa. E abbiamo finalmente la locomotiva cui agganciare le nostre speranze. Se si guarda il lavoro, ci attacchiamo al tram: l’Italia è tuttora messa male assai. Per l’alto tasso di disoccupazione (11,1 per cento contro il 9 dell’area euro e il 3,8 della Germania) e ancor più per l’alto tasso di disoccupazione giovanile (35 per cento contro 19 dell’Ue, il 23 della Francia e il 6,5 dei tedeschi). E, forse soprattutto, perché quelli che lavorano sono sempre più vecchi: over 50 raddoppiati e under 30 dimezzati negli ultimi vent’anni. La quota di giovani laureati è bassa (20 per cento contro il 30 della media Ocse). Alto è lo scarto tra mansione svolta e competenze possedute, in eccesso o in difetto, risultato anche dello scollamento istruzione-lavoro. Aggiungasi che sono tornati a crescere malattie professionali e incidenti sul lavoro e che i lavori routinari in Italia sono ancora una fetta cospicua.
Per tutto questo, dicono che l’Italia non ha realizzato il passaggio dal welfare al workfare, cioè da uno Stato del benessere che riduce le diseguaglianze con l’assistenzialismo a uno che le riduce procurando a tutti le stesse opportunità di lavoro. Queste cose le asseriscono ormai quasi tutti quelli che ragionano.
E’ incontestabile che il welfare sia in Italia scaduto, negli scorsi decenni, da giusto dovere di solidarietà a cavallo di battaglia e allegro banchetto delle forze politiche e sindacali consociate nella nefasta impresa di indebitare il Paese e finanziare se stessi e le rispettive clientele (a ciò non rimediarono le staffilate di Mani Pulite, e anzi il tacòn, come dicono i Veneti, fu peggio del buso). Comunque sia, soldi per un welfare grasso non ce n’è più e la strada è obbligata. Ma per passare risolutamente dal welfare al workfare occorre non considerare “anche” il lavoro, ma mettere il lavoro al centro. Al centro di un nuovo patto sociale tra politica ed economia, tra impresa e lavoratori, tra vecchie e nuove generazioni.
Ma per mettere al centro il lavoro non basta dirlo in inglese — “workfare” — come Clinton, come Blair, ma ritrovare e vivere il senso del lavoro. Si tratterebbe, è evidente, di una rivoluzione culturale. Per gli imprenditori, tentati (non tutti, per fortuna) di trasformarsi in speculatori, per i quali il lavoro è considerato non un valore ma un costo. Per i sindacati, che al centro hanno messo il posto di lavoro — di chi ce l’aveva già — e che hanno troppo a lungo considerato l’impresa non come bene sociale ma come luogo principe del conflitto tra capitale e lavoro. Per tutti gli stressati da scrivania e computer per i quali il senso dei giorni lavorativi è quando finiscono, il venerdì pomeriggio, e buon week-end. La necessità di una rivoluzione culturale riguarda non meno i cattolici, storicamente tutti interclassisti in politica con la Dc e i succedanei della medesima; classisti, invece, almeno i più socialmente impegnati, secondo il modello duale “cristiani in parrocchia e sindacalisti in fabbrica”. Per un bel po’ di anni. Poi basta. Più niente.
E pensare che proprio il cristianesimo, primo e unico movimento nella storia dell’uomo, ha riscattato e redento il lavoro, per tutte le altre religioni e culture bruta fatica da schiavi o da animali. Il cristianesimo ha conferito al lavoro piena dignità, con un Dio eterno lavoratore, un figlio di Dio apprendista falegname e una millenaria storia (benedettina e non solo) di lavoro equipollente alla preghiera, ora et labora. Ha così assunto il lavoro nella sfera della libertà. Da subito, non marxianamente nella futura improbabile (e a conti fatti indesiderabile) società comunista.
Per rimettere il lavoro al centro, da lì si deve ripartire. Dal suo senso, dalla sua dignità. Da suo essere bisogno costitutivo della persona. Non parliamo di un passato perduto né di un pio auspicio ma di un vigoroso seme piantato e ripiantato. Da ultimo, da papa Francesco, che tra Cagliari e Genova-Ilva ha indicato l’obiettivo irrinunciabile di un lavoro per tutti (al posto di un reddito per tutti), e di un lavoro degno (non sporco, o malpagato, o precario); del buon imprenditore non speculatore; del lavoro fatto bene per dignità e di un nuovo patto sociale che basandosi sul lavoro (lo dice anche la Costituzione italiana) salvi sostanzialmente la democrazia.
Quindi: seppellire lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti” e issare con papa Francesco un bel “lavorare bene, lavorare tutti”. La partita va impostata così, altrimenti si finisce per giocare come l’Italia contro la Svezia.