Tra i grandi desideri dell’umanità c’è sicuramente quello dell’unità, che negli ultimi tempi ha trovato la propria “icona” nell’incontro fra papa Francesco e il patriarca Kirill a Cuba, simbolo dell’unità fra i cristiani ma anche di uno sguardo finalmente umano, aperto e sincero. Minimizzato, guardato con scetticismo, apertamente avversato in Russia da moltissimi, è stato tuttavia un punto di non ritorno, un fatto da cui non si può più prescindere, e che di tanto in tanto riaffiora e si afferma a crocevia inaspettati.
Ad esempio, è riaffiorato in una mostra di icone di santi del primo millennio, che cento artisti di 14 paesi del mondo hanno realizzato nei mesi scorsi e due giorni fa è stata presentata in anteprima a Mosca al Centro culturale “Biblioteca dello Spirito”. In un campo e con un linguaggio come quello dell’icona, che sembra retaggio esclusivo dell’Oriente cristiano, gli iconografi si sono cimentati con figure e iconografie che appartengono alla tradizione dell’Occidente latino, per scoprire e testimoniare l’unità profonda che lega insieme i due volti dell’Europa, ed evidenziare l’attualità del messaggio che ne proviene.
Potrebbe sembrare un’iniziativa devozionale o un’operazione filologica. In realtà, quando ci si addentra nell’esposizione e ci si trova nel mirino dello sguardo di oltre 150 personaggi (tante sono le icone esposte) vissuti nello spirito del cristianesimo universale prima del Grande Scisma del 1054, il loro solo esserci sfida la tranquilla indifferenza con cui oggi concepiamo la divisione, l’estraneità, sentendola in fondo come la condizione della normalità. Un’estraneità e una divisione che, naturalmente, non si limitano ai rapporti tra Est e Ovest, ma diventano l’armatura con cui si scende quotidianamente nel campo della vita. Non che questi santi, con le vicende realmente crude e barbare in cui sovente furono implicati, ci presentino un’unità facile e idilliaca: ci parlano piuttosto, per usare le parole con cui Papa Francesco nel luglio scorso ha istituito attraverso il motu proprio Maiorem hac dilectionem una nuova “fattispecie dell’iter di beatificazione e di canonizzazione”, di una “eroica offerta della vita, suggerita e sostenuta dalla carità”.
Coraggiosa, in questa mostra, è la scelta di lasciar da parte le migliaia di santi appartenenti all’area bizantina e slava per concentrarsi sui santi latini, qui a Mosca generalmente guardati come quelli che “stanno dall’altra parte della barricata”; e questo per la precisa volontà di aiutarsi a riconoscere (mi era capitata la stessa cosa insieme a un gruppetto di studenti russi, in visita all’antica basilica di San Vincenzo a Galliano, davanti alla lapide funeraria di un santo vescovo del VI secolo), che “anche loro sono nostri, e noi siamo parte di loro”.
L’iniziativa non è semplicemente un gesto di buona volontà compiuto da un gruppo di artisti, ma si inserisce in un più vasto progetto educativo della Chiesa ortodossa russa, che agli inizi del 2017 ha introdotto nel proprio calendario liturgico una quindicina di santi occidentali. E nuovi elenchi sono in preparazione. Evidentemente, già in passato il calendario liturgico ortodosso russo venerava vari santi occidentali, anche se non sono molti i fedeli che se ne rendono conto: martiri – per fare un solo esempio, san Clemente papa; apostoli di intere nazioni, come san Bonifacio, oppure teologi come Agostino, Ambrogio, Girolamo; fondatori di ordini monastici come san Benedetto ecc. Ad essi nel 2017 se ne sono aggiunti altri, tra cui san Patrizio d’Irlanda, sant’Albano d’Inghilterra, santa Genoveffa e san Germano di Parigi e così via: tra essi emergono, in particolare, gli evangelizzatori – preziosa indicazione di una priorità cui ci troviamo davanti anche nel mondo attuale.
Quale sfida rappresenti per noi questa santità oggi, è appunto il tema centrale della mostra, un tentativo di aiutarci a riscoprire l’eterna giovinezza della Chiesa attraverso il recupero e la rivisitazione in chiave moderna di antiche figure e storie, riattualizzandole. “Testimoni del proprio tempo, ma portatori di un messaggio al nostro tempo”, come ha sinteticamente caratterizzato i protagonisti della mostra Irina Jazykova, studiosa di storia dell’arte e coordinatrice scientifica del progetto.
Agli artisti è stato qui affidato il compito, usando antiche tecniche pittoriche (dal mosaico alla tempera all’encausto alla ceramica), di creare una nuova iconografia dei santi che hanno plasmato il volto dell’Europa occidentale ritrovandone l’attualità e il messaggio che la Chiesa ha voluto fissare canonizzandoli, sottraendoli all’oleografia o all’astrazione per immergerli nel contesto vivo del XXI secolo. È uno sforzo di immedesimazione per gli iconografi di tradizione slava, ortodossa, ma anche un’interessante opportunità per noi occidentali, che abbiamo così modo di vedere se stessi e la nostra tradizione da un’angolatura diversa da quella da cui siamo soliti guardarsi, secondo accenti e sensibilità che possono aiutarci a scoprire aspetti di noi stessi che non conoscevamo. In ogni caso, pur nella diversa impostazione delle opere, in tutte riecheggia con grande sintonia il messaggio offerto dal già citato motu proprio, che indica la radice vera e ultima della santità nella carità di Cristo, da cui solo, configurandosi a Cristo, sgorga per l’uomo la possibilità di donare la vita: “Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”(Gv 15,13), come dice il titolo.
Un gesto di unità, dunque, e di carità, la cui riuscita è un ennesimo segno che i desideri veramente grandi si realizzano sempre, perché sono nel cuore di Dio. Ora, da Mosca la mostra muoverà i suoi primi passi, prima nel contesto dell’Est Europa (Minsk, Pietroburgo, Perm’, Ekaterinburg e altre città), per poi raggiungere, nel 2019, varie capitali europee.