Mettere il lavoro degno al centro di un nuovo patto sociale è impresa rivoluzionaria ed epocale. Essa esige non solo buone idee in testa ma buone gambe su cui le idee possano camminare. Gambe di persone che nel mondo del lavoro siano presenti e vivano da cristiani la condizione di tutti.
Le idee e l’abbrivio li ha dati papa Francesco a più riprese, rilanciando la straordinaria enciclica Laborem Exercens di Giovanni Paolo II, in cui il lavoro è considerato il dinamismo necessario della libera autorealizzazione dell’uomo. Simile magistero abilita tutti gli uomini del lavoro — imprenditori, manager, quadri, semplici maestranze — ad essere “cristiani nel mondo del lavoro”, ossia un soggetto portatore di una proposta di significato originale, impegnato nel dialogo con le altre presenze nella ricerca delle soluzioni più adeguate (che non sono predefinite).
La semina del magistero è stata recepita dalla folta platea di cattolici italiani riuniti a fine ottobre nella 48ma Settimana sociale di Cagliari. L’ha guidata monsignor Filippo Santoro, che è stato operaio pro-tempore alla Mercedes di Stoccarda da giovane studente di teologia, poi ha trascorso 27 anni in Brasile tra favelados, contadini e operai sfruttati, infine è approdato come arcivescovo nella Taranto squassata dal dramma dell’Ilva. La Settimana è stata eccezionale per almeno due motivi: uno, che dei cattolici impegnati hanno preso le parole del papa come impegnativa ipotesi di giudizio e non, secondo abitudine, come innocua premessa spirituale; due, che è stato scelto per tema proprio il lavoro. Cosa non da poco, anzi un passo avanti gigantesco, se solo si considera che l’ultima Settimana sociale che ha messo a tema il lavoro è stata nientemeno che nel 1970. Paradossalmente in quello stesso anno, all’indomani dell’autunno caldo sindacale, le Acli, titolari ufficiali dei lavoratori cattolici, compivano una scelta di classe ispirata all’ipotesi socialista. La tradizionale dicotomia “cristiano in parrocchia, sindacalista in fabbrica” divenne vistosa lacerazione culturale e ideale, e il risultato di quella Settimana sociale fu che per 20 anni di Settimane sociali non se ne fecero più.
Da allora è cambiato il mondo. Lo spazio sociale accordato alla Chiesa è stato ridotto a quello degli ultimi, dei disabili, degli emarginati, dei profughi. La cura dei più deboli è sacrosanta, intendiamoci. Ma la divisione dei compiti “al Potere l’economia, alla Chiesa lo scarto che il turbo-capitalismo produce”, sacrosanta non è e rischia di far fuori non tanto la Chiesa ma l’uomo del lavoro.
Molti desiderosi di essere indirizzati e sostenuti sulla strada indicata da Francesco erano a Cagliari alla Settimana sociale e ne sono stati protagonisti attivi e convinti. E’ ragionevole sperare che nei loro normali contesti di vita e di lavoro ci sia un seguito. Molti di questi sono sindacalisti. Come quelli del Circolo Ettore Calvi, da anni impegnati nella Cisl, sindacato di origine cattolica. Tra di loro vi è una lunga storia di amicizia operativa. I più anziani hanno esordito negli anni 70 e 80 proprio come “cristiani nel mondo del lavoro”, in ardita controtendenza rispetto al “cristiano in parrocchia, sindacalista in fabbrica”. Gli stessi, e nuovi sopraggiunti, hanno poi costruito Centri di solidarietà, veri antesignani di un modello di incontro domanda-offerta di lavoro per i giovani basato sull’attenzione alla realtà e al bisogno. Così superando da un lato lo statalismo burocratico e inefficace degli uffici di collocamento e non cedendo, dall’altro, alle sirene dell’ultra-liberismo, dell’edonismo da drive-in, delle Milano-da-bere. Quegli stessi, e altri nuovi amici, negli anni a seguire attrezzarono dentro la macchina sindacale l’attenzione ai lavoratori atipici, precari, non tutelati e cercarono di premere l’acceleratore — superando l’assistenzialismo — sulle politiche attive, la formazione dei giovani e la riqualificazione degli esuberi per favorire il rientro nel mercato del lavoro.
Non a caso sono stati i primi “uomini del lavoro” a riprendere la Settimana sociale, in un loro raduno milanese aperto dallo stesso mons. Santoro, a ragionarci e a farne la propria bussola. Se essi hanno anticipato linee di azione di cui altri si sono via via convinti è stato per passione al senso del lavoro e dedizione al bisogno reale delle persone. Attitudini a loro volta innescate dall’aver posto come punto di partenza il proprio profondo desiderio di verità umana. Stare legati al desiderio che mobilita la persona e non a uno schema da perpetuare attraverso un apparato, e alimentandosi dunque della vita della comunità cristiana, si può riuscire a dare una mano anche all’edificazione del buon sindacato e della buona rappresentanza. Di questo c’è decisamente bisogno. Mentre di marchingegni di potere simil-partitico, decisamente no.