Per ora è solo una voce quella che vorrebbe Susanna Camusso capolista di Mdp a Milano e chissà se alla fine la leader Cgil percorrerà davvero a ritroso la storica cinghia di trasmissione fra “sindacato” e “partito”. Ma il rumor è già indicativo di un preciso clima elettorale: il Jobs Act sarà uno dei grandi dadi che verranno giocati dentro le urne. E la sinistra irriducibile vuole tenere nel 2018 in Piazza Duomo, al centro della Lombardia, comizi anni 50 o anni 70 (anche se sarebbe interessante poter ascoltare Luciano Lama sulla riforma del mercato del lavoro). Può sembrare scontato: lo è in realtà sul filo di un pesante equivoco politico-economico.

La crisi dell’occupazione è certamente la prima emergenza del Paese a fine 2017: più della gestione dei flussi migratori, più della messa in sicurezza del sistema bancario. Ed è evidente che il quinquennio di governo del centrosinistra soffra proprio su questo fronte alla partenza del confronto elettorale: soprattutto quando il Jobs Act è la sola riforma degna di questo nome che il Pd può intestarsi, con il riconoscimento di tutte le grandi istituzioni internazionali. Ma al Jobs Act non è seguito in tempi brevi un forte rilancio dell’occupazione e questo è un buon pretesto per forze politiche antagoniste vecchie e nuove per cavalcare una “riforma della riforma” che – certamente nel caso di Mdp – equivale ad “abolizione e restaurazione”.

In realtà il Jobs Act non ha mai promesso “milioni di posti di lavoro”, che solo una ripresa del ciclo economico appena ora visibile sta cominciando a creare uno per uno. E’ vero invece che la riforma ha contribuito a creare un terreno di gioco modernizzato per le imprese investitrici, soprattutto per quelle che ora stanno svecchiando le loro tecnologie produttive con gli incentivi “Industria 4.0”. Meno che mai, comunque, la riforma aveva come obiettivo il recupero tout court dei posti di lavoro perduti dal 2008 in poi assieme al 10% del Pil: si è prefissa invece di promuovere condizioni per creare job letteralmente “nuovi”, all’interno di un sistema di imprese proiettato alla riconquista della sua competitività internazionale.

Meno tute blu, più felpe da lavoratori digitali; meno impiegati, più ricercatori e più export manager; più formatori per lavoratori meglio e permanentemente formati. Per questi “nuovi lavoratori”, il Jobs Act ha disegnato un mercato del lavoro coerente: l’equivoco è – e resta – pensare che un mercato efficiente produca nel ventunesimo secolo una piena occupazione da secolo ventesimo. È’ invece decisivo il matching fra qualità della domanda e dell’offerta: in Calabria una grande agenzia di servizi per il lavoro sta creando “piena occupazione” per i laureati in matematica, statistica, informatica. Ma anche la Regione Lombardia ha costruito 4mila posizioni di nuovo apprendistato, manovrando subito il Jobs Act come catalizzatore fra scuole, imprese, finanziamenti pubblici statali e locali.  Naturalmente le “esperienze di lavoro” sono quelle concretamente domandate da un tessuto di artigianato e piccola-media imprese in forte evoluzione: assai più di quelle meccanicamente offerte da un sistema scolastico spesso restìo alla logica dell’alternanza.

Sicuramente il Jobs Act ha affrontato anche il fronte della flessibilità in uscita. Ai lavoratori più o meno anziani messi in mobilità dalla congiuntura o dal cambiamento sono state riservate quelle politiche attive del lavoro che sono rimaste per gran parte ai box: questo perché innestate nella ricentralizzazione delle funzioni previste dalle riforme costituzionali. Ma nulla vieta che le politiche attive vengano svolte dalle Regioni in un orizzonte in cui l’ente pubblico s’interfaccia con le nuove strutture private del mercato del lavoro. È’ un altro capitolo ancora per gran parte da scrivere: quando bene ha fatto il governo, nella sua legge di bilancio di congedo, a inserire un’accelerazione del percorso di ricollocamento per coloro che in cassa integrazione speciale.

Esattamente com’è avvenuto per il referendum sui voucher, l’Italia non può permettersi di perdere il Jobs Act all’esito di una campagna elettorale che già rischia di non vincere la governabilità del Paese.