Un amico che vive negli Stati Uniti mi ha scritto: “A cena, con tre colleghi venuti dalla California, ho raccontato di quanto, la scorsa estate a Los Angeles, fossi rimasto scosso dal fatto che nella zona in cui risiedevo (Venice Beach), la follia e la povertà sono fenomeni che appaiono perfettamente normali. Anche i turisti passeggiano noncuranti tra barboni e malati di mente accampati sulla spiaggia nei pressi di bar e ristoranti. Pare appunto che la cultura locale abbia metabolizzato questi fatti sociali. Dopo una breve discussione in cui sono stati tirati in ballo argomenti come apatia e responsabilità, una delle professoresse presenti ha ricordato un episodio occorso più di dieci anni prima: la reazione di suo figlio alla notizia che due coetanei si erano suicidati. Non ci voleva credere e si chiedeva perché fosse avvenuto. La donna collegava questo comportamento all’educazione che il ragazzo riceveva dalla scuola dei Gesuiti che, nonostante fossero Cattolici, ci diceva, insegnava agli studenti a discutere tutto e ad assumere una posizione critica. Forse, concludeva, per avvicinare le persone ci vorrebbe paradossalmente un po’ più di religione nella nostra società”.

È quello che probabilmente pensano coloro che in America, nei primi sei mesi dopo la sua uscita, hanno acquistato le seimila copie del libro Disarming Beauty (l’edizione inglese de La bellezza disarmata) di Julián Carrón. Un numero di tutto rispetto, visto che i best seller di pubblicazioni di questo tipo arrivano a circa duemila copie.

Sembra paradossale, però, tutta questa richiesta di sacro. Infatti, come sottolineava spesso Lorenzo Albacete, “la religione ha sempre rivestito un ruolo importante nella vita e nella politica degli Usa”, e “la società americana sembrerebbe la prova che l’incontro tra religione e modernità possa non essere necessariamente dannoso alla fede”. A differenza che in Europa, in America la modernità non pare aver portato alla eliminazione di Dio dalla vita pubblica. Inoltre, tutti i sondaggi attestano che, nonostante la quota di chi dichiara di non professare alcuna religione stia aumentando, gli americani continuano ad essere un popolo molto religioso, una gran parte prega Dio in tutti i momenti importanti della sua vita, privata e pubblica. Per tanto tempo noi europei, un po’ malati di nichilismo e di cupezza, li abbiamo visti come un popolo capace di speranza, che crede nella vita e nella realtà come qualcosa di ultimamente positivo, come amava dire don Luigi Giussani.

Eppure, ad un’osservazione più attenta, qualcosa non torna nell’America di oggi. Pulsioni distruttive emergono sempre più da sotto la cenere e, in un tempo di smarrimento generale, sembrano addirittura crescere. Il fascino morboso suscitato per tanto tempo da un folle omicida come Charles Manson, ad esempio, la dice lunga su qualcosa che si è inceppato nella vita dell’America, che ad ogni nuova strage – l’ultima è di pochi giorni fa – è costretta a fare i conti con il suo lato oscuro e a rivivere “giorni di ordinaria follia”. Intendiamoci, gli Stati Uniti non sono certo il posto più violento del mondo, ma colpisce la discrepanza tra gli alti valori umani professati di giustizia, libertà, democrazia, religiosità e una situazione sociale borderline, dove l’aggressività è diventata palpabile dal come si guida l’automobile a come ci si spinge per uscire dalla metropolitana. Cosa c’è sotto, quindi?

Il momento di estrema confusione mondiale non aiuta, così come non aiutano le crisi economica e politica, ma forse c’è anche un fattore più profondo. Albacete riconosceva una difficoltà strutturale nella società americana e la faceva risalire all’influenza dominante del protestantesimo, dove la fede è distaccata dalla ragione e viene fatta coincidere con la morale, con l’”obbligo di lavorare per il bene di altri, ma non ha nulla a che fare con la capacità di conoscere Dio [e quindi di fare esperienza della sua misericordia] e conoscere cosa ciò riveli sul significato di essere uomini”.

Nella cultura protestante il male dell’uomo non ha rimedio, nemmeno Dio può ripararlo (secondo Martin Lutero il peccato rimarrà anche in paradiso come un “mucchio di letame ricoperto di neve”). Il successo (comunque per pochi) non è in grado di mettere a posto il nostro essere male e l’unica risposta ad esso è morale: dobbiamo comportarci meglio, “come se” fossimo salvi. Secondo una mentalità di questo tipo, il limite e l’errore possono essere superati solo se dimenticati. Il fallimento è una colpa senza appello che lascia il soggetto irrimediabilmente solo.

La si può mettere anche in questo modo: in America non riesce a radicarsi l’intelligenza della misericordia. Mancano l’idea e l’esperienza del perdono, di legami che aiutino a ripartire in virtù del fatto che c’è un bene più grande del proprio limite e del proprio male, rapporti con persone non che spingano a negare l’errore, ma a riconoscere che c’è la strada per uscirne.

In ogni caso, la condanna dell’insuccesso personale genera spesso violenza perché, nel momento in cui il limite non può essere accolto, impazzisce. L’uomo isolato è incapace di realizzare il suo bisogno di significato (l’american dream) e se lo prende sul serio, quando viene frustrato, genera rabbia che non trova sbocchi, se non in modo irrazionale. Non si può certo cambiare in nome di una legge. Al massimo qualcuno riesce a farcela socialmente, ma non a cambiare, non a sentirsi dentro un percorso di crescita e di sviluppo personali. Infatti si parla di successo, non di salvezza.

Il bisogno di significato è stato fino ad un certo punto identificato nel progetto “America”, una nazione libera, dove fosse garantita una possibilità per tutti, un luogo in cui il desiderio personale diventasse progetto collettivo. Ma questa idea si sta piano piano erodendo.

Non sta andando in crisi solo questo orizzonte collettivo, ma sta diventando debole anche la riflessione sul livello individuale. Mi colpisce sempre come, di fronte a stragi o a omicidi, ci si accontenti di una spiegazione troppo sbrigativa: un folle che soffriva di depressione. La domanda sul perché è successo, quale bisogno esprimeva il gesto violento, non è presa in esame. E’ come se la persona fosse stata invasa da un demone che chiamiamo raptus, ma che non ha alcun nesso con la sua identità. E così l’alibi irrazionale cerca di tranquillizzare le coscienze.

Perché si fa tanta fatica a guardare la profondità del desiderio e il limite, da cui pure abbiamo bisogno di liberarci? Perché è così difficile capire che sotto a tanto disagio c’è un desiderio che non trova la strada di una soddisfazione positiva, che ha bisogno di essere individuato, riconosciuto, accompagnato, impedendo che vada su vie distruttive? Ogni uomo, anche il più perverso, merita che si riconosca e si capisca il suo desiderio e dove si è inceppato.

Anche noi in Italia facciamo sempre più fatica a comprendere il perdono, addirittura ci scandalizziamo, ultimamente riducendo la persona al suo errore. Mi ha profondamente colpito di recente, ad esempio, il fatto che, di fronte alla parabola del Figliol prodigo, alcuni ragazzi non abbiano esitato a commentare che loro, il figlio, benché fosse tornato per chiedere perdono al padre, lo avrebbero cacciato via. “Ha sprecato le sue chance ed è giusto che paghi”, dicevano.

Manca un’esperienza vissuta che salvi il desiderio e asciughi le lacrime. Per ricominciare non serve difendersi appellandosi a una dottrina teorica, o barricandosi in un ghetto.

Ed è così che di fronte alla proposta di un’esperienza religiosa in cui l’esperienza umana è considerata fino in fondo, succede che le persone rimangono attratte e colpite.

Un’esperienza in cui viene detto: guarda, hai dentro una bellezza disarmata che ti rende capace di stare di fronte alle difficoltà della vita con un’ipotesi positiva per vivere; il tuo desiderio merita di essere preso sul serio nella sua radice positiva, perché è ultimamente un bene, anche se puoi sbagliare nell’identificare la risposta ad esso. Il desiderio va realizzato; e il tuo errore non è l’ultima parola: c’è sempre una chance, una possibilità di ricominciare, di vivere, di costruire.

Questa è la forza del libro di Carrón: la fede è un’ipotesi positiva su tutto, ed essere cattolici non è da perdenti, come pensano tanti in America. Perché si è vincenti non quando ci si eleva nello stato sociale, ma quando si può stare di fronte a qualunque prova della vita salvando la propria statura umana, che ha una dignità irriducibile. Ma la nostra dimensione umana ha bisogno di essere sostenuta in una comunione spirituale e materiale.

La bellezza disarmata non è un trattato di teologia astratta, ma un testo che esprime il desiderio di vita vera che abbiamo tutti. Il percorso che propone non consiste nel contrapporre il relativismo alle questioni morali, ma è un invito a superare la riduzione dell’uomo a tali questioni. Perché Cristo sta anche con chi sbaglia. Il re del desiderio umano è con noi.