Sabato 28 ottobre; mi preparo ad andare a letto con una speciale soddisfazione: il ritorno dell’ora solare mi consentirà di dormire di più. Tiro giudiziosamente indietro le lancette dell’orologio, punto la sveglia (che, essendo una di quelle collegate via antenna con non so quale Centro, si metterà a posto da sola durante la notte) per poter andare alla messa domenicale delle otto e mezza. 

Dormo tranquillo, di filato, finché la suoneria mi fa alzare. Mi sento riposato; dopo essermi lavato e vestito esco per andare in chiesa, che è vicinissima a casa mia: praticamente basta attraversare la strada e sono già sul sagrato. Dopo pochi passi, dunque, la sorpresa: non vedo in giro nessuno e sia il portone d’ingresso che le due porte laterali della chiesa sono sbarrate. Mi accorgo immediatamente di essere in anticipo di un’ora o, meglio, mi coglie una percezione molto più profonda e sorprendente: quella di non essere nel posto giusto del tempo. Proprio così; ci metto poco a capire che ad ingannarmi è stata la sveglia (avevo inavvertitamente disinstallato l’antenna che la collega al Centro per cui lei è andata avanti come se nulla fosse), ma quell’attimo di sospensione quando mi sono accorto di non trovarmi nel tempo in cui pensavo di essere mi ha fatto di schianto percepire l’enigmatica immensità del tempo stesso.

Noi crediamo di possederlo perché lo misuriamo, lo calcoliamo sia in avanti che indietro, lo penetriamo con precisione fino a misure così incredibilmente piccole o così astronomicamente grandi da essere inimmaginabili, Ma io, il mio piccolo e bellissimo io, cos’è in rapporto al tempo? Ci balla dentro come una goccia in un immenso tubo di vetro, impotente a produrre una qualsiasi variazione nel suo corso. Non riesco a spiegarmi meglio di così. 

Nei giorni successivi mi è tornata in mente la scena del sogno del vecchio professore nel film di Ingmar Bergman Il posto delle fragole (per chi non lo ricordasse o non l’avesse mai visto). Non mi aveva fatto paura la fine: il carro funebre perde una ruota, s’inclina, lascia cadere la bara che si apre, ne esce una mano che afferra il professore: è lui stesso il morto. Mi aveva fatto paura invece l’inizio: il professore che cammina sul marciapiede e si avvicina ad un palo con in cima un orologio, che ha tutte le ore indicate per bene, ma non ha le lancette; il professore estrae allora dal taschino il proprio orologio: anche qui i numeri ci sono, ma senza lancette: il tempo c’è ma, sfuggendo per un attimo alla nostra pacifica misurazione, mostra la sua enigmaticità.

Per il pessimismo bergmaniano dietro all’enigma del tempo non c’è che il gorgo buio della morte nella quale confluiscono nullificandosi tutte le gocce umane. 

Alla morte abbiamo tutti dovuto pensare lo scorso due novembre. Ma il giorno prima abbiamo celebrato la solennità di tutti i santi e la liturgia mi ha aiutato a leggere meglio cosa mi avesse colpito la domenica precedente; dice la prima antifona delle Lodi mattutine: “Nel regno dei cieli è la dimora dei santi” e fin qui qualche immaginazione ce la si può fare, qualche parvenza di comprensione possiamo pensare di averla. Ma la seconda parte dell’antifona è assolutamente sorprendente per la splendida luce che getta sul senso del tempo: “il loro riposo è l’eternità”. Il senso di grandezza smisurata, sfuggente ai calcoli umani, che mi aveva colpito quella mattina era un richiamo all’autentica dimensione del tempo, che non è puro scorrere verso la morte e nemmeno immobilità senza contenuto umano, è eternità in cui siamo chiamati a riposare.