Qualunque sia l’esito del voto, è prevedibile che il nuovo governo e il nuovo parlamento dovranno mettersi al lavoro su una riforma del sistema-media in Italia. La probabile chiusura di un grande accordo fra Vivendi, Tim e Mediaset – confermata da Piersilvio Berlusconi al Corriere della Sera – è destinata a cambiare radicalmente il mercato dei media e a mettere sotto pressione una regolamentazione che da tempo appare superata. Quest’ultima è nata con la legge Mammì del 1990 ed è poi evoluta (leggi Gasparri, Gentiloni, etc) senza mai metterne in discussione la matrice: la codificazione del duopolio di fatto fra Rai e Mediaset nella tv tradizionale e il muro fra tv e carta stampata. Una cornice sostanzialmente nazionale e non-digitale ha continuato a circoscrivere una industry nel frattempo rivoluzionata dalla globalizzazione tecnologica e finanziaria. E un approccio lontano dal libero mercato è stato finora caratterizzato da forme di regolazione della raccolta delle risorse pubblicitarie e dalla presenza dominante di un operatore statale (finanziato anche dal canone) e di un competitore unico, controllato da un leader politico per tre volte premier. Nel frattempo, ai gruppi editoriali nazionali della carta stampata è stato impedito di espandersi nella tv, frenandone così la crescita dimensionale e digitale.
La stabilizzazione di una proprietà francese per Tim e la definizione di una partnership con Mediaset per la fornitura di contenuti video a piattaforme digitali, certificano ora il superamento netto di quel mondo, ponendo sia all’industria sia ai regolatori sfide a cui rispondere senza più ritardi. I media sono dunque un business integrato e globalizzato, in cui la produzione di contenuti converge verso i canali digitali. E’ un business che richiede grandi investimenti: di qui la tendenza alla crescita dimensionali dei gruppi, senza più frontiere nazionali per la proprietà o linguistiche per il mercato. Certamente, l’informazione resta un “prodotto” molto speciale all’interno delle democrazie: la centralità del fake news nel dibattito pubblico internazionale lo conferma.
Gli obiettivi di una riforma – di una “politica dei media” – da parte di una democrazia europea come quella italiana appaiono quindi complessi ma evidenti. Una situazione considerata auspicabile e comunque realizzata in numerosi altri settori – dalle banche all’energia – vede alcuni operatori residenti competere sul mercato aperto e concorrenziale con operatori di altri paesi, con lo sviluppo frequente di alleanze e aggregazioni transnazionali. E fra gli operatori residenti – in tutti i paesi della Ue – l’emittente tv di Stato mantiene un suo ruolo ma lontano dalla predominanza rispetto a gruppi privati, liberi invece di spaziare su tutti i segmenti del settore. Un governo (quello italiano si è recentemente dotato di un nuovo golden power proprio per il cambiamento del controllo di Tim) utilizza infine strumenti generali per fronteggiare in modo flessibile interessi esteri su gruppi nazionali di rilievo strategico. Fra i primi esiti in agenda del confronto di governo e Agcom con Tim vi è comunque un passaggio direttamente inserito nella specifica “politica dei media“: la neutralizzazione/liberalizzazione della rete Tim e il suo sviluppo nella banda larga
Il caso Vivendi-Tim-Mediaset come delineato è in ogni caso già quasi esemplare: Mediaset e Tim stanno cercando crescita strategica nella convergenza digitale con il ruolo attivo di un investitore europeo e la loro alleanza è sorvegliata dal governo con un approccio bilanciato fra esigenze del mercato e tutela del sistema-Paese. La stessa opportunità va data a tutti gli altri operatori italiani: compresa la Rai, cui dovrebbe essere riconosciutà più la facoltà che l’obbligo di ristrutturarsi. Una Rai concentrata sul vero servizio pubblico (con un finanziamento adeguato e regolato) potrebbe liberarsi di tutte le attività che sono ormai oggetto di competizione sul mercato e che un’emittente pubblica nazionale non ha più dimensione per reggere in modo efficiente. D’altro canto editori come Rcs, Gedi o Mondadori (pure controllata da Fininvest) devono avere l’opportunità di espandersi a tutto tondo: cercando il migliore mix di prodotti e canali.
Il riassetto dell’oligopolio tv allargato (Rai -Mediaset oltre a La7 e a Sky nel satellitare) si presenta quindi l’occasione per rafforzare il sistema-media italiano in vista di un’ineludibile apertura del mercato. E se non ci fosse di mezzo il conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi, non sarebbe improprio immaginare un programma di incentivazione fiscale a scorpori e fusioni simile a quello che, nei primi anni ’90, consentì al sistema bancario di riorganizzarsi e consolidarsi in vista dell’euro. Oggi sembra preistoria ma fino al 2011 fu un caso di successo.