In alcune correnti della psicologia lo chiamano rilevatore di discrepanza. È quel meccanismo che si attiva nella nostra mente quando si paragonano le cose che ci sono con quelle che ci dovrebbero essere. Dicembre è il mese del rilevatore di discrepanza: il Natale in occidente si è trasformato da una festa di fede a una vera e propria dittatura collettiva. A Natale si devono fare e ricevere regali, si deve avere una famiglia, stare bene, essere felici, sentirsi a casa, onorare tradizioni, trovarsi a proprio agio con parenti e amici. Purtroppo per molti, forse per tutti, non è così. E allora o si fa finta di niente, e si partecipa ad una sorta di ipocrisia di massa aspettando che le feste passino, oppure ci si ritira in un cantuccio, tristi perché la nostra vita non è come ci hanno raccontato che dovrebbe essere, pieni di sensi di colpa per quello che siamo e che non siamo.

Conosco una persona che qualche tempo fa ha detto di avere una brutta malattia. Sarebbero dovuti seguire mesi di cure, interventi più o meno invasivi, degenze. La cosa ha impensierito e preoccupato molti, ma — quasi per miracolo — nelle settimane successive non è successo niente. Il motivo era molto semplice: non c’era alcuna malattia. Questa persona stava così male dentro che ha dovuto inventare una bugia per non soccombere al dolore che si portava appresso. Eppure sarebbe bastato dire: “Non sto bene, ho bisogno di più attenzione, datemi una mano!”. 

Le parole più semplici a volte diventano le cose più difficili da dire. Viviamo costantemente sotto stress, ostaggio delle aspettative nostre e altrui, in balia di un senso di inadeguatezza e di paura che ci spinge a scegliere strade irragionevoli e pericolose. Non abbiamo confidenza col Mistero che siamo, ne abbiamo timore, non lo conosciamo. S’insinua dentro di noi il dubbio che quel Mistero sia un ignoto, che per noi sulla terra non ci sia un bene, una verità, una giustizia. Così, forse ancora un po’ increduli e storditi, cominciamo a scendere a compromessi, a farci andare bene qualunque cosa purché essa ci avvicini a quello che desideriamo. Ci va bene tutto, anche un surrogato.

Così, in un giorno di dicembre in cui l’atmosfera ci invita a fare in fretta, ad accaparrarci velocemente qualche brandello di felicità per non farci trovare impreparati alle feste, finisce che ci accontentiamo perfino del gusto dolciastro che ci può dare una bugia perché, almeno per un istante, ci ha fatto avere quello che temiamo ci sia stato proibito. Siamo poveri: rubiamo per questo, trattiamo male le persone per questo, ci abbandoniamo a qualunque bassezza per questo. Per non sentire tutto il peso e la forza di questa povertà. Chi si ferma, infatti, è perduto: se per un attimo la smettessimo di combattere, di vendicarci, di spettegolare su tutto e tutti, avvertiremmo nitidamente uno iato, uno spazio vuoto che ancora non abbiamo abitato. Quanta tenerezza ha avuto Dio nel pensare di infrangere la corazza che ci siamo costruiti entrando in quello iato col vagito di un bambino! A tutto avremmo pensato, tranne che il pianto di un bambino potesse essere la soluzione, l’inizio di qualcosa di nuovo. Non una scelta morale, né una decisione politica, neppure un sentimento edificante o intimo. 

Alla fine il 25 dicembre è solo lunedì, ma il Natale irrompe senza preavviso il giorno in cui il nostro cuore sbatte contro l’imponenza di un bene. Un bene che ci fa dimenticare tutti i rilevatori di discrepanza. Un bene che ci fa smettere di dire le bugie. Perché quel bene, inaudito e gratuito, non ha paura di chiamare per nome ed accogliere tutto quello che siamo e che la gente, a volte distratta, chiama vita. È per l’esperienza di quel bene infatti che, in certe notti d’inverno, accade il miracolo di riuscire a dire a chi ci sta accanto, e ci è compagno di cammino, le cose più semplici, le parole più difficili.