Questo Natale ci trova tutti più disponibili rispetto al passato. Non si tratta del bagaglio religioso che ognuno porta sulle spalle, ma della disponibilità ad accogliere l’infinitamente improbabile come ipotesi di partenza. Betlemme e Beit-Sahour (il campo dei pastori), in Cisgiordania, fanno notizia in questi giorni non solo per la disputa su Gerusalemme capitale. Ora che siamo rimasti senza sistemi, che abbiamo paura l’uno dell’altro, la necessità di una tenerezza consistente affiora in ogni angolo. La nostra sicurezza in quel che siamo capaci di fare è diminuita considerevolmente, nemmeno sappiamo se una macchina o un computer potranno presto sostituirci. E ancora meno chiari sono i riferimenti morali. Non ci sono ragioni o cause sufficienti praticamente per niente.
Abbiamo attraversato la crisi. L’Eurozona potrebbe chiudere quest’anno e quello che viene con una crescita del 2%. Ma le cose non sono tornate com’erano nel 2008. La cicatrice non ci fa sedere comodamente. Per quanto i messaggi di tranquillità proliferino per scacciare i fantasmi della “fine del lavoro”, persistono le paure. C’è paura di ciò che può portare la quarta rivoluzione industriale, la digitalizzazione.
Non è solo la prevenzione naturale verso il futuro o verso un modello produttivo che non è ancora chiaro e di cui sappiamo ben poco. È un’inquietudine più profonda che mette in dubbio la certezza dell’uomo liberale e socialdemocratico. Il Nobel per l’economia assegnato quest’anno a Richard Thaler è un buon esempio della sensibilità dominante. Thaler si distingue per aver studiato il nostro comportamento. Ha dimostrato che non siamo macchine perfette di consumo e produzione. Le nostre azioni rispondono a una razionalità limitata e prendiamo decisioni con preferenze “deformate”. Le soluzioni proposte da Thaler per “spingere” le persone ad adottare opzioni “più accurate” non sono la parte più interessante del suo pensiero. L’importante è che, dalla scienza economica, come prima dalle neuroscienze o dalla biologia, siamo invitati a rivedere una certa immagine che avevamo di noi stessi, l’immagine di una sana libertà, di una riuscita autonomia.
In queste circostanze è difficile mantenere l’idea di essere dotati di una razionalità quasi perfetta ed esclusiva. L’avanzata dell’Intelligenza Artificiale ci fa riflettere intensamente su ciò che ci differenzia dalle macchine pensanti, capaci di imparare. Ci chiediamo, ogni volta con più insistenza e meno superbia, cosa ci rende umani. E ripetiamo più che mai la parola autocoscienza e l’espressione intelligenza emotiva.
Forse è questo non sapere molto bene ciò a cui siamo ridotti ad aumentare in noi la paura dell’altro. Guardiamo fuori casa, in strada, attraverso il vetro deformato da un’apprensione che aumenta le possibili minacce. Questo è probabilmente il motivo per cui ci aggrappiamo ansiosamente al sogno di costruire muri. Nell’anno dell’elezione di Trump, secondo i sondaggi Ipsos, gli americani pensavano che un terzo della popolazione del loro Paese fosse costituita da immigrati. La percentuale reale è del 14%. Questa paura dell’immigrazione è presente in tutto il mondo. In Giappone bisogna dividere per 5 il numero di immigrati che i giapponesi ritengono di avere nel loro Paese per ottenere quello reale, in Polonia succede qualcosa di simile. Gli italiani moltiplicano per tre gli immigranti reale e gli spagnoli per 1,5. Gli ungheresi moltiplicano nella loro immaginazione per 70 i musulmani nel loro Paese e gli americani per 15 volte. Non siamo di fronte a un’avanzata dell’immigrazione. In questo momento ci sono in tutto il mondo circa 230 milioni di migranti, che rappresentano il 3% della popolazione del pianeta, una percentuale molto simile a quella di cento anni fa. La Banca Mondiale ha previsto che un aumento del 3% degli immigrati nei paesi sviluppati potrebbe generare circa 400 miliardi in più di Pil. La paura è nei nostri occhi.
Inutile fare appello al rafforzamento morale. In questi giorni è stato pubblicato in Spagna uno studio prestigioso sui valori dei più giovani, in cui si fa un confronto tra l’etica attuale e quella di 30 anni fa. La conclusione è che “dal 1984 al presente Rapporto del 2017 c’è stato un graduale aumento del lassismo morale di fronte a tutti i comportamenti, compresi quelli che riguardano la violenza fisica, il terrorismo o la violenza di genere”.
Senza sapere chiaramente chi siamo, senza la capacità di mantenere la morale che è rimasta viva per secoli, con la paura verso noi stessi e verso gli altri, siamo più esposti che mai. Più bisognosi che mai. E forse meno disposti a continuare a discutere su chi ha ragione e più disponibili ad accettare il primato dei fatti. Persino se il fatto è apparentemente insignificante come un bambino.