Cresciuta durante la guerra fredda, dopo la sconfitta di fascismo e nazismo, la gran parte della mia generazione per tanto tempo è rimasta convinta che il mondo fosse diviso tra buoni e cattivi, e che la parte occidentale del mondo fosse naturalmente quella dei buoni. L’assetto geo-politico mondiale degli ultimi settant’anni è costituito da fenomeni complessi che non intendo qui analizzare. Voglio semplicemente rilevare l’evoluzione del sentimento generale che è rimasto tra molti, forse i più. Da bambini giocavamo a indiani e cowboy, all’oratorio vedevamo i film dove prima o poi arrivavano le rassicuranti giubbe blu per far fuori quei selvaggi che attentavano alla vita dei poveri pionieri indifesi. Poi con il tempo abbiamo imparato che la realtà è un po’ più complessa: Soldato Blu e Piccolo grande uomo, da ragazzi, ci hanno fatto scoprire che gli americani hanno commesso un vero e proprio genocidio verso gli indiani, mettendosi al di sopra di qualunque legge naturale umana. In seguito, abbiamo compreso che anche all’estero avevano commesso diversi errori e crimini, e non erano solo come li avevamo esaltati al termine della Seconda guerra mondiale: il Vietnam e il Sud-Est asiatico, l’appoggio ai peggiori dittatori, da Pinochet ai generali sudamericani, alle fake news per trovare un alibi nel muovere guerra a Saddam Hussein.

Insomma, abbiamo scoperto, nostro malgrado, che il mondo non è in bianco e nero, ma è fatto di infinite sfumature di grigio. Dal 2001 però, dopo l’attacco alle Twin Towers e al Pentagono pensavamo di aver ritrovato il nemico assoluto, quello che incarna il male totale contro cui schierarsi tutti: il terrorismo sedicente “islamico” che uccide innocenti in tutte le città del mondo sotto le vesti di Al Queda o Isis, rapisce con Boko Haram ragazze ree solo di studiare, distrugge cose e persone in un raccapricciante disegno di morte, tratta le donne come animali, odia la libertà e la conoscenza, distrugge monumenti sacri all’umanità come i Budda dell’Afghanistan o siti di valore storico inestimabile come Palmira. Non ci è voluto molto però a ripiombare nella delusione: presto è diventato di dominio pubblico il fatto che certo terrorismo islamista è nato e prosperato grazie a protezioni e finanziamenti indiretti degli stessi americani che hanno cercato in questo modo di allargare la loro sfera di influenza e limitare quella dei russi, nel grande gioco geopolitico mondiale. Sempre convinti che le democrazie occidentali sono i “nostri” che lottano per il bene, abbiamo considerato questo un semplice errore strategico, persuasi che comunque i paesi in lotta per la libertà dovevano opporsi al terrorismo.

A questo punto però è arrivato il disinganno finale. I resoconti sul campo (vedi per esempio quelli di Patrizio Ricci dalla Siria su queste pagine) ci dicono che dagli Stati Uniti arrivano ancora oggi finanziamenti per i gruppi filo terroristi in Siria e che, mentre vengono denunciate solo le efferatezze di Assad, in occidente si tace sulle altre, e nessuno sta verificando, ad esempio, chi abbia usato veramente le armi chimiche. Un grande gioco sporco.

Del resto, altre evidenze chiariscono lo scenario: l’alleanza degli Usa con l’Arabia Saudita, primo Stato finanziatore del terrorismo, lo strano modo di fare-non fare la guerra a Daesh che sarebbe ancora lì senza l’intervento dei russi, gli enormi favori fatti al terrorismo eliminando Saddam e Gheddafi, senza essersi posti il problema del dopo.

Alla fine, quello a cui la mia generazione si è dovuta arrendere, è il fatto che, sia nella classe dirigente repubblicana che in quella democratica statunitensi, domina una assoluta indifferenza, non solo verso la sorte nell’immediato delle popolazioni negli scenari di guerra, ma anche nei confronti di una possibile prospettiva di pace e stabilità future. E quindi si giunge a una verità scomodissima: anche per i nostri paladini d’oltreoceano la lotta per la libertà e per la pace è solo una delle tante opzioni da tenere presente se non confligge con interessi economici e strategici. La dimostrazione viene dalla unilaterale presa di posizione su Gerusalemme del presidente Trump. In poche parole, non ci sono più i “nostri” americani a difenderci.

Cosa devono fare l’Italia e l’Europa in questo contesto? Forse bisognerebbe ridiscutere radicalmente tutte le alleanze del mondo occidentale e gli assetti geo-strategici. Per quel che riguarda l’Europa e il nostro paese bisognerebbe riprendere quel ruolo di mediatore che abbiamo avuto dai tempi della guerra fredda. A costo di ricevere dai falchi l’accusa di doppiogiochismo per difendere la pace alla luce del sole abbiamo mediato tra Est e Ovest, tra palestinesi e israeliani, tra terzo mondo e paesi sviluppati, contro gli estremismi guerrafondai e le alchimie che favoriscono terrorismo e violenza oggi appannaggio anche di paesi come gli Stati Uniti d’America.

Un sostegno ideale importante a questo compito, viene senz’altro da quella parte della Chiesa cattolica che, dalla Populorum Progressio di Paolo VI di cinquant’anni fa, fino alle continue prese di posizione di Papa Francesco per la pace, la prosperità, il diritto ad esistere, non solo dei cattolici, ma di ogni popolo e minoranza, qualunque sia la sua religione e la sua etnia. Le comunità cristiane, là dove vivono sinceramente la loro missione e non cercano l’egemonia e il potere sono, inoltre, in tutto il mondo un importante fattore di convivenza, di carità verso i singoli uomini, di cooperazione per il bene comune.

A ben guardare, possiamo ancora aspettare i “nostri”. Non arrivano a cavallo, armati di spada e baionetta, ma sono capaci piuttosto di usare l’arma del dialogo, della diplomazia, della ricerca del minor male e del compromesso virtuoso. Perché parlano a nome di tanti che ogni giorno vivono per una esperienza quotidiana di pace, perdono e amore nei posti più sperduti e dimenticati del mondo.