“Poi che l’ottobre dorato declinò nel torbido novembre e il raccolto delle mele fu messo da parte e la terra diventò piena di scure zolle, profili di morte che emergono da una desolazione d’acqua e di fango, ecco avvicinarsi il Nuovo Anno”. Così canta il coro delle donne di Canterbury all’inizio di Assassinio nella cattedrale di Thomas S. Eliot. Il giorno — dice la didascalia iniziale — è il 2 dicembre. Lasciamo per un momento da parte il fatto che sia il 1170 e che l’azione teatrale riguardi le vicende dell’arcivescovo Thomas Becket, martirizzato il 29 di quello stesso dicembre. Pensiamo, invece, a come i potenti versi di questo coro ci possono illuminare nello sguardo alla complessa catena di feste che ci aspettano da qui al Nuovo anno. Le donne di Canterbury ci avvertono che “il destino è in attesa di compiersi”. Di quale destino si tratta? Lo sappiamo: è il Natale, è il compiersi della salvezza, è la luce che sfolgora davanti ai pastori e balugina alta nel cielo scrutato dai magi. È, quindi, anche un destino di festeggiamenti, di ritrovi festosi, di lasciarsi un po’ andare a tavola, di brindisi e di scambio di doni che, per quanto formale possa apparire, ha in sé un nucleo di gratuità cristallina che niente può oscurare.
Ma il destino non è solo questo. “Chi ha ricordato i santi nel giorno di Tutti i Santi, ha ricordato anche i martiri e i santi che devono ancora venire?”. Una scia di sangue, infatti, intreccia la dolcezza delle festività natalizie: al giorno della natività segue quello dedicato al primo martire della storia cristiana, Stefano; alla festa dell’apostolo Giovanni, il tenero amico di Cristo, l’unico dei Dodici che non sia morto di morte cruenta, fa seguito quella degli Innocenti, sacrificati da Erode sull’altare del potere al posto del Santo Bambino di Betlemme. E il giorno successivo celebreremo, appunto, la memoria dell’arcivescovo di Canterbury e martire Thomas Becket, anch’egli ucciso da un re, Enrico II, per il suo anteporre i diritti della Chiesa a quelli della monarchia.
Le donne di Canterbury sanno che sta tornando dalla Francia dopo sette anni di esilio, comprendono bene che il suo rientro gli costerà la vita ma, soprattutto sanno che a loro sarà chiesto di prendere posizione e di testimoniare, cioè — letteralmente — di essere martiri. Non vorrebbero farlo: “Quanto sarebbe meglio se ora non tornasse!”. Preferirebbero l’oscurità di una vita senza scosse: “Noi siamo sempre costrette a subire molteplici oppressioni, ma almeno siamo ancora libere di dedicarci alle nostre faccende, contente se nessuno si cura di noi”. Hanno paura “che le tranquille stagioni siano sconvolte”. Ma la nascita di Cristo, il Natale, non è stato il supremo sconvolgimento del tempo? Così radicalmente scombussolante che il tempo ha dovuto resettarsi e ricominciare da capo, tanto che il 2018 che festeggeremo tre giorni dopo Becket si chiama così esattamente a partire da quell’evento sconvolgente.
Le donne di Canterbury sanno che “Il destino attende nelle mani di Dio mentre dà forma alle cose che sono ancora informi” e non sono disposte ad accettarne la parte dolorosa e ancora pochi istanti prima che Becket — volto concreto del destino — entri in scena dicono: “Noi non vogliamo che accada nient’altro” e come un ritornello rassegnato ripetono che preferiscono che il loro tempo trascorra “vivendo e quasi vivendo”. Un sacerdote le sgrida, ma l’arcivescovo appena giunto le difende: esse in fondo hanno detto una verità, e cioè che “il disegno è un agire e un soffrire”.