Anche l’Ilva sacrificata al gioco elettorale

Il piano di salvataggio industriale e ambientale dell'Ilva di Taranto resta bloccato da un veto puramente elettorale del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano. GIANNI CREDIT

Il caso Ilva si sta sicuramente rivelando di utilità nel rompere la noia distratta della campagna elettorale da talk show per richiamare l’opinione pubblica sull’Italia reale, sul Sud reale, sulle emergenze reali nel’economia e nel lavoro, sul governo della cosa pubblica qui e ora nel Paese.

Dunque: l’Ilva è un’eredità pesante dell’intervento statale nell’industria del secondo dopoguerra. Altrove – a Genova o a Napoli – la siderurgia pubblica da tempo non c’è più o quasi, mentre anche quella privata ha battuto in ritirata. A Taranto l’Ilva c’è ancora, dopo una privatizzazione – quella condotta dalla famiglia Riva – tortuosa com’era naturale fosse al Sud, in un settore ad alto rischio ambientale e da tempo esposto alla concorrenza asiatica, in una città che ha sempre vissuto abbarbicata attorno alla piastra dell’acciaio e al porto. Dal 2012 l’Ilva è al centro di un groviglio giudiziario, economico, politico: l’inchiesta per “disastro ambientale” ha spossessato i Riva e affidato ai commissari un gruppo che tuttora impiega 14mila persone (12mila a Taranto).



Dopo cinque anni il ministero dello Sviluppo economico ha raggiunto un accordo con il gigante indiano ArcelorMittal, già attivo in Italia a Piombino e altrove. Arcelor – che ha costituito una società ad hoc con il gruppo Marcegaglia ha messo sul piatto 1,2 miliardi di investimenti, l’impegno a mantenere 10mila dipendenti con la disponibilità a riassumere gli altri 4mila con il Jobs Act, avviando subito una serie di azioni di risanamento ambientale per portare il più grande impianto siderurgico nella Ue a regime con le normative ambientali Ue. Tutto è pronto per partire con il nuovo anno, per il massimo della quadratura possibile fra le ragioni dell’impresa, quelle dell’occupazione e del reddito al Sud, quelle della politica industriale e della tutela ambientale. L’unico ostacolo rimanente è un ricorso presentato dal presidente della Regione Puglia (anche il sin daco di Taranti, nelle ultime ore, si è detto pronto ritirare la moral suasione del Mise).



Michele Emiliano è un magistrato in aspettativa fin dal 2004 quando fu eletto sindaco di Bari per il Pd e quindi successore di Nichi Vendola in Regione. E’ un giocatore politico-giudiziario che non è certamente rimasto ai bordi dell’arena nazionale del Pd nell’ultimo anno: dapprima come avversario plateale del leader Matteo Renzi dopo la débàcle referendaria, dopo per un rapido rientro nei ranghi e per un lungo silenzio nei mesi delle scissioni nel centro-sinistra. Ora, a tre mesi dal voto, Emiliano tiene calata la sua carta-veto sulla definitiva messa in sicurezza dell’Ilva da parte del governo guidato da Paolo Gentiloni, con la responsabilità diretta di Carlo Calenda al Mise: il primo sempre più candidato a continuare l’esperienza a Palazzo Chigi dopo il voto, il secondo ministro “macroniano” in crescita politica.



Non è difficile vedere nel cosiddetto “caso Ilva” un’ennesima convulsione pre-elettorale, per di più da parte di un magistrato auto-prestatosi alla politica. E’ molto più difficile definire “politica” una partita elettorale giocata sulla pelle di una grande città del Sud già molto provata (ed Emiliano contrasta pure l’appodo pugliese del Tap, la Trans Adriatic Pipeline per il gas azero). Ed è quasi impossibile – nell’Italia del 2017 – non concordare con quello che ha detto poche ore fa Gentiloni con voce di premier, non di spregiudicato giocatore politico: “Quando ci sono capitali pronti a bonificare l’ambiente e a salvare il lavoro, un grande Paese trova il mondo di accoglierli e di non disperdere queste risorse”.

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