Uno degli aspetti che crea angoscia quotidiana all’italiano di oggi è dato dalle continue analisi sullo stato della nostra economia che sembrano non dare scampo. Il Pil cresce pochissimo, la produttività è tra le più basse d’Europa, il rapporto tra debito e Pil aumenta, lo spread tra Btp e Bund è aumentato in questi giorni. Soprattutto, la disoccupazione non diminuisce e per alcuni comparti geografici e fasce di età aumenta. E quando si parla di lavoro, la questione non è più un dato statistico, ma diventa un fatto doloroso, se non tragico, che tocca la singola persona e le famiglie.
C’è però un dato sorprendente reso noto da Alleanza Cooperative Italiane (che questa settimana ha festeggiato i 130 anni di vita): tra il 2008 e il 2015, mentre a livello generale si è perso l’1,7 per cento dei posti di lavoro, l’occupazione nelle cooperative è aumentato del 6,1 per cento. Il comparto rappresenta l’8 per cento del Pil nazionale e in esso vi lavorano 1.350.000 le persone.
E’ una storia antica quella delle cooperative, che affonda le radici nella storia stessa del nostro Paese: le prime Società operaie e quelle di Mutuo Soccorso risalgono alla metà dell’800, mal viste e spesso osteggiate dai governi dell’epoca. A ispirare queste realtà le due principali forze popolari italiane, quella cattolica e quella socialista.
L’impresa cooperativa è in sintesi un soggetto economico e sociale basato sul possesso collettivo dei mezzi di produzione, sulla solidarietà, sul lavoro non inteso come corsa al profitto di pochi, ma di equa distribuzione delle risorse fra tutti.
Utopia? Una domanda che potrebbe utilmente essere rivolta ai 65 abitanti di Succiso, piccolo borgo sull’Appennino Tosco-Emiliano. Quando agli inizi degli anni Novanta rischiava di essere abbandonato, alcuni suoi abitanti si sono riuniti in cooperativa (“La valle dei cavalieri”) e hanno riattivato il bar, il negozio di generi alimentari, aperto un agriturismo, alcune attività turistiche, sostenuto l’allevamento di ovini, sono entrati nella gestione delle visite del Parco nazionale. In una parola, hanno ridato vita (e lavoro) ai loro concittadini.
Le prime cooperative sono nate per favorire l’accesso a un consumo sostenibile. Al loro fianco, in sinergia, si svilupparono: scuole popolari, microcredito, mutue sanitarie e previdenziali. Il loro modello non è quello della competizione “conflittuale” (fra economia e società, fra impresa e welfare, fra spiriti del mercato e controlli), ma quello di un tentativo concreto di coniugare meriti e bisogni: di vincere per quanto possibile la disuguaglianza.
Ma nell’ordoliberismo, abbracciato da economisti, editorialisti e politici di ogni colore, solo poco tempo fa era considerato un settore finito.
Eppure, l’economia globalizzata impone qualità crescente dei prodotti e organizzazione del lavoro sempre più efficace. In un mercato fortemente competitivo come questo, i risultati si ottengono là dove si sviluppano relazioni di collaborazione e si riducono i rapporti conflittuali. In questa sfida il mondo delle cooperative è avvantaggiato grazie alla concezione stessa della sua missione. In una cooperativa il lavoratore è anche imprenditore senza esserne il “padrone”, è suo interesse primario essere parte attiva del processo e del controllo produttivo.
La cooperazione, popolata di imprenditori-lavoratori, “una testa, un voto” e avendo la mutualità come principio di governance, è l’esatto contrario di un’economia rigidamente suddivisa fra investitori finanziari, imprenditori-manager e dipendenti (in fondo senza soluzioni vere di continuità fra capitalismo industriale “di classe” e turbofinanza globalmente divisa fra l’1 per cento di ultraricchi e il 99 per cento di “sempre più poveri”).
Nella coop da manuale, il denaro non è mai principio e fine, ma mezzo. L’impresa stessa nasce per “servire” altre imprese coop (basti pensare a tutte quelle di servizio del settore agrario).
Nello sport nazionale di buttar via il bambino con l’acqua sporca, qualche scandalo di qualche cooperatore corrotto è servito per dire che le cooperative fossero da rottamare come parte di un mondo clientelare e in declino.
E invece non solo resistono, ma aumentano gli occupati. Anziché massimizzare il profitto, massimizzano l’occupazione: proprio quello di cui c’è più urgenza oggi. Esse sono senz’altro un modello di auto-occupazione in un momento di grave crisi. Ma ci dicono anche che accanto ai modelli di impresa tradizionale, c’è bisogno di perseguire fini che, anche senza negare il profitto, intendono andare oltre al profitto stesso, in una logica mutualistica e sociale. C’è bisogno di un pluralismo di imprese che dal confronto fra di loro sul mercato possano offrire una logica che valorizzi tutte le categorie coinvolte nell’impresa: proprietari, soci, lavoratori, clienti, comunità di riferimento.
Papa Francesco ha parlato di “una profonda crisi antropologica”, di negazione del primato dell’essere umano, “ridotto a uno solo dei suoi bisogni, il consumo”. Di fronte ai danni evidenti di una tale mentalità è necessario avere delle valide alternative.