Il centesimo anniversario della poesia di gran lunga più nota del Novecento italiano stava per sfuggirmi (niente di male, per carità), se non me l’avesse ricordato un saggio dello scrittore Tiziano Scarpa, ripreso dalla rassegna stampa culturale di Radio 3. Sto parlando dell’ungarettiana “M’illumino / d’immenso”, che tutti conosciamo e della quale tutti (scagli la prima pietra chi non l’ha fatto almeno una volta) abbiamo pensato essere una banalità, una poesia che non è una poesia, comoda solo perché impararla a memoria non costa nulla e perché la si può citare fingendo di sapere cos’è l’ermetismo.
A dire il vero la poesia di Ungaretti non si compone solo dei due celebri versi: ha anche un titolo – “Mattina” –, più un’indicazione geografica e cronologica – “Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917”. Partiamo da quest’ultima perché, se è stata lasciata dall’autore in tutte le edizioni, deve ben significare qualcosa. La data indica che siamo nel pieno del macello della prima guerra mondiale e il luogo (un paesino pochi chilometri a nord di Palmanova, Friuli) ci trasporta vicinissimi alla linea del sanguinoso fronte italo-austriaco. La prima linea non è lontana e il soldato Giuseppe Ungaretti, che di lì a pochi giorni avrebbe compiuto 29 anni, sta trascorrendo coi suoi compagni di reggimento la tanto sospirata licenza invernale, dopo cinque mesi nell’inferno delle trincee. Dove, del resto, torneranno il 7 febbraio chiedendosi se sarebbero sopravvissuti alla carneficina.
Il titolo è quello che comparirà nella prima edizione su rivista, a fine anno, in un gruppo di 15 poesie che percorrono il ciclo del giorno. Ma la prima versione della poesia (scritta su una cartolina postale inviata a Giovanni Papini) aveva come titolo “Cielo e mare” e, soprattutto, tre versi in più: “M’illumino / d’immenso / con un breve / moto / di sguardo”.
Detto tutto ciò (che è minima parte di quello che si potrebbe aggiungere o ulteriormente indagare quanto alle circostanze che hanno accompagnato la nascita della lirica), resta la domanda sul significato di queste due celebri righe. Il contenuto del verbo illuminare usato transitivamente è chiaro: illumino la strada con una pila, il sole illumina la terra. Più complicato il senso riflessivo: cosa vuol dire che io “mi illumino”? Non certo il fatto banale che prendo la pila e la rivolgo a me stesso o che constato che il sole sorgendo illumina fisicamente anche me. Ci aiuta un’espressione del tipo: “A quella buona notizia il mio volto si è illuminato”. Cioè illuminarsi è l’accendersi di una luce interiore, provocato da qualcosa di positivo che mi raggiunge.
Ungaretti sta dunque raccontando che in quelle tragiche condizioni, in quel momento così difficile, qualche cosa è riuscita a rasserenare, a offrire speranza, a far capire di più. Questo qualcosa è ciò da cui viene illuminato e di cui è in qualche modo riempito: l’immenso, appunto, cioè – etimologicamente – il senza misura.
Nel suo articolo Tiziano Scarpa analizza il significato del “mi” di “m’illumino” e conclude trattarsi di una azione in cui il poeta “fa qualcosa a se stesso”, confermando “la sua libertà, la sua padronanza di sé”. Non credo che sia così, per il semplice fatto che l’io non è immenso e l’immenso non lo può neppure padroneggiare. Quel momento del mattino del 26 gennaio di cento anni fa è stato un regalo dell’immenso, che ha spalancato le misure dell’io. Come capita di fronte allo shock di una grande bellezza.