Gli artisti, diceva Gio Ponti, sono quel tipo di uomini che sono capaci di sorprendere Dio. Venerdì uno di loro, certamente uno dei più capaci da questo punto di vista, se ne è andato. Si chiamava Jannis Kounellis, era nato al Pireo, in Grecia, nel 1936, ma era da sempre italiano e romano. Kounellis è stato uno dei protagonisti del movimento d’avanguardia più importante e più internazionalmente riconosciuto nell’Italia del Dopoguerra, quello dell’Arte povera. Concretamente, “arte povera” nel suo caso significa che per realizzare le opere ha sempre coerentemente fatto ricorso a materiali quasi di scarto come metalli, corde, feltro, sacco, vecchie tele. Kounellis aveva una spiccata vocazione teatrale, per cui sapeva tradurre questi materiali in installazioni di suggestione, bellezza e potenza impressionanti. Era insomma un artista per il quale l’aggettivo “grande” non suonava per nulla retorico. Ed era anche un artista molto libero, che da “ateo di chiesa” come si definiva, più volte aveva voluto affrontare delle committenze ecclesiali. 

In un caso in particolare, l’esito è stato memorabile. Mi riferisco al lavoro realizzato a Milano nel 2012, su invito di padre Andrea Dall’Asta, per la chiesa dei gesuiti di San Fedele. Nella cripta dell’edificio cinquecentesco a Kounellis era stato chiesto di realizzare un lavoro a partire dall’Apocalisse. Un lavoro difficile che si poteva prestare a fughe “visionarie”, e che al contrario Kounellis ha risolto con un’intuizione di grande realismo. “Svelamento” è il titolo di quest’opera. Proviamo a descriverla: da una grande croce, fatta di putrelle di ferro incardinate nei muri della cripta, pende un sacco di juta di dimensioni imponenti; all’interno del sacco s’intuisce che c’è un’altra croce, che col suo peso (è un massello di oltre un quintale) sembra tendere la tela sino a quasi a lacerarla. Sono linee di forza che si contrappongono e esprimono la dinamica di un dramma in atto. Ma a uno sguardo più approfondito, si nota come il sacco sia tenuto sospeso da terra e come questo dia un senso di grande e inatteso respiro. 

Quanto alla croce, la sua spinta dall’interno sembra in realtà esprimere un impeto di liberazione. Allora diventa più chiaro il pensiero poetico che l’artista ha seguito. “Il sacco”, aveva infatti spiegato Kounellis, “comunica un senso di mistero, ma le braccia della croce spingono sui fianchi e se ne intravede la forma, pronta a liberarsi, come una rivelazione, un nuovo mondo”. Così un’opera che di primo acchito quasi opprime con quel suo peso così concreto e fisico, riesce a sollevarsi e a commuovere per un imprevisto anelito. È un’opera che alla fine esprime un gemito: il gemito che precede uno “svelamento” capace di far nuovo il mondo.

Certamente si prova uno spiazzamento nel vedere espresse in forme tanto audaci un’idea così profonda e anche antica. E ci si può sorprendere che a “tenere vivo il fuoco” siano artisti magari arrivati da storie lontane e che parlano con linguaggi in fragorosa rottura con quelli del passato. Ma quello che decide tutto è la coscienza che li muove. E quanto a Kounellis la sua coscienza è ben testimoniata da questa, recente, liberissima confessione: “Di recente ho sentito il Papa dichiarare che il Cristianesimo non è solo una religione spirituale, ma che ‘la puoi toccare’. Ecco la grande diversità. Una Madonna di Tiziano è anche una bella donna. È un’altra cosa, meno ‘scostante’ di un’immagine bizantina (scheletrica, senza pelle). Per il cristiano, la pelle diventa questione di santità. Insomma, il rapporto con la materia (e con la divinità) passa attraverso la pelle. È un’esperienza sensoriale. Non si deve restare chiusi nel dogma di un neo-platonismo resuscitato. Il divino non è al di fuori dell’uomo. Ogni tanto bisogna dar ragione ai cattolici!”.

 

Ps: proprio per quel che lui dice, l’opera di Kounellis va vista dal vero, non riprodotta. È un’esperienza sensoriale, qualcosa “da toccare”. Del resto andandoci si potrà scoprire che a san Fedele non c’è solo lui a “tener vivo il fuoco”…