A volte sono davvero sorprendenti le intuizioni e i collegamenti che ci vengono semplicemente guardandoci intorno. Sono le sei e mezzo di sera e mi sto avviando a piedi verso la fermata del filobus che mi porterà a casa. La strada è quella di tutte le sere, ma stasera i palazzi e gli uffici, i negozi e perfino il cavalcavia vibrano d’una luce particolarmente bella: è stata una giornata limpida e ad occidente il sole, ormai invisibile, lascia comunque dietro di sé un dolcissimo azzurro che assume addirittura sfumature di verde.
Alzo gli occhi dal marciapiede per cercare di cogliere il massino dell’orizzonte tra le sagome degli edifici che vanno scurendosi, ed eccola là: Venere brilla così tanto che sembra grande il doppio del solito ed incredibilmente vicina. Nessun’altra luce naturale c’è ne cielo: l’astro annunciatore della notte — che sarà domattina anche quello del giorno — è solo. Meglio: è unico.
È a questo punto che scatta l’impensato collegamento: è unico come il giorno che sta finendo; che però, a differenza della bella Venere, non tornerà mai più. Risale alla mia memoria la preghiera del salmo: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” (o, nella nuova traduzione, “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio”).
Cosa c’è di più desiderabile di quella sapienza che è così sapiente che si definisce “del cuore” e non solo del cervello? Per avere una sapienza così — dice il salmista — bisogna imparare a “contare i nostri giorni”. Mi accorgo che non mi sono mai chiesto cosa ciò significhi e adesso che mi son messo a farlo non so rispondere.
Cosa significa concretamente “contare” i propri giorni? Quelli del futuro non sono in grado di contarli perché è impossibile sapere quanti il destino me ne riserva. Enumerare quelli del passato può al massimo portare al gelido buonsenso dei vecchi che rimpiangono o maledicono i giorni che furono o alla pericolosa fissazione di chi rimugina e analizza in continuazione quel che è stato su cui, tanto, non puoi più intervenire; e che saggezza sarebbe mai questa?
È tutto molto più facile: si tratta di contare fino a uno. Come Venere brilla alta e solitaria nel cielo che s’annerisce, così l’unità minima di tempo con cui si misura l’esistenza umana — il giorno, l’oggi — è facile da contare perché è unico. Unico come il giorno in cui sono nato e che è segnato sulla carta d’identità, unico come il giorno in cui ho fatto le importanti scelte di vita e incontrato coloro che amo di più, unico come quello (ancora ignoto) che, sulla lapide della mia tomba, fiancheggerà quello della nascita. È questa unicità che rende drammaticamente interessante “un” giorno, che sarà sempre diverso — per i fatti, i volti, i sobbalzi di gioia e gli abbattimenti di tristezza — da “un” altro giorno.
E così mi sono accorto che “contare” non significa soltanto inserire meccanicamente in una enumerazione bensì accorgersi che questo giorno, nella sua irriducibile unicità, “conta”, cioè è straordinariamente importante.