Il boom dell’export italiano a fine 2016, insieme all’accelerazione della produzione industriale di dicembre, come ha evidenziato l’editoriale di mercoledì firmato da Gianni Credit su queste pagine, sta ad indicare che la ripresa sta finalmente arrivando?

Il dato dell’avanzo commerciale è notevole: quasi 10 miliardi in più rispetto al 2015, ottenuti lungo un anno considerato negativo a livello mondiale.

Per capire però perché prestazioni di tale entità non sembrano in grado di trascinare la crescita del Paese, bisogna aver bene presente il contesto da cui proveniamo. Ad esempio, a riguardo della bassa produttività, cioè del rapporto tra la quantità prodotta in una data unità di tempo e i mezzi impiegati per produrla.

I numeri ufficiali sono impietosi. Dal 1995 al 2015 la produttività oraria del lavoro è cresciuta al ritmo medio annuo dello 0,3% (ed è diminuita nel 2015, ultima misura disponibile). Nel ventennio la crescita cumulata è stata del 5%: gli Usa hanno fatto otto volte meglio, Francia, Germania e Gran Bretagna sei volte, come del resto la media Ue. Hanno fatto meglio anche due paesi dell’Europa mediterranea come Portogallo (cinque volte) e Spagna (tre volte).

Su questi dati ci sono spiegazioni diverse e discordanti.

Una prima interpretazione attacca il neo liberismo dell’Unione europea che, ossessionata dal debito pubblico, impedirebbe l’intervento “keynesiano” dello Stato, cioè quell’investimento pubblico in grado di sostenere l’economia.

Un seconda tesi mette in luce il declino di grandi gruppi in Italia che, come riportano spesso gli interventi de il Sussidiario, non è casuale, ma frutto della politica industriale scellerata o inesistente degli ultimi 30 anni e delle svendite sospette di grandi imprese pubbliche. La produttività cresce con forti budget di ricerca, con aggregazioni di cervelli, con grandi flussi di capitali finanziari e umani che permettono l’interazione organizzativa fra addetti e macchine in fabbrica, come ad esempio quella nell'”industria 4.0″. Dove nulla è “grande”, la produttività ristagna e declina. 

I neo liberisti nostrani prendono a pretesto questo concetto e ne fanno un loro cavallo di battaglia: l’attacco alzo zero contro il “nanismo” delle imprese abbinato alla loro proprietà familiare. Secondo questa tesi il successo di piccole e medie imprese farebbe leva più sulla vivacità umana dei loro imprenditori che sulla produttività. I dati statistici sembrerebbero dar ragione a questa tesi: per la manifattura italiana la produttività nelle imprese grandi è quasi tripla rispetto a quella delle micro. Un rapporto simile a quello osservato nella manifattura spagnola, ma decisamente più alto di quello registrato in Germania (2 volte e mezzo) e Francia (2 volte). Ma occorre vedere anche l’altra faccia della medaglia: l’Italia si caratterizza per un’elevata concentrazione di occupati nelle microimprese (45.2% del totale), maggiore che nelle altre economie in questione (40% Spagna, 29% Francia, 19% Germania). E “occupazione” significa lavoro, consumo, possibilità di vita diversa: se è auspicabile nel lungo periodo un cambiamento, la morte darwiniana delle piccole imprese nel breve periodo significa disastro umano e sociale.

Se le cose stanno così sembra non ci sia via d’uscita.

Il fatto è che i numeri usati in questo modo non dicono tutto quello c’è da sapere. C’è una dimensione di cui ci si dimentica spesso, ragionando più che altro in termini di media. Si tratta della varianza.

Come dice uno studio di Prometeia, dal 2009, anno che ha segnato il punto più basso della produttività del lavoro, la crescita di questa dimensione è stata asimmetrica, si è differenziata fortemente in base al settore e alla localizzazione geografica. Dal 2009 la manifattura ha avuto una forte ripresa (oltre il 18%) così come il settore finanziario (+13%). E ancora, la produttività totale dei fattori ha registrato un incremento sia nella fase recessiva (+0,8% medio annuo nel periodo 2009-2013), sia negli anni di ripresa (+0,7% nel 2014 e +0,4% nel 2015).

Da cosa dipende allora la sua perdurante crisi? Dai servizi. I servizi non finanziari sono in difficoltà: il settore della distribuzione ha un trend in leggera crescita (+4% dal 2009), le ICT hanno perso circa l’8% dal 2012, continuano a cadere i servizi professionali (-12% dal 2009). La questione  diviene ancora più chiara se guardiamo i dati sulla produttività della pubblica amministrazione che con base 100 nel 2010 crolla dal 2008 al 2014 dal 108.3 al 98.2. Il dato territoriale rafforza l’idea di una situazione non omogenea. Le regioni meridionali sono tutte in fondo alla classifica, ma anche diverse regioni del Nord e del Centro si posizionano su valori inferiori alla media nazionale. Lombardia e Lazio registrano livelli di produttività nettamente superiori alle altre regioni.

Uscendo da logiche ideologiche che accusano una certa indole verso il lavoro, ci sono solo due ipotesi. La prima: in questa parte del paese il lavoro nero e sommerso regnano sovrani e non permettono di registrare il reale prodotto. Del resto, i dati da terzo mondo contrastano con la qualità di vita di molte città del meridione. La seconda: in tali regioni non solo la produttività di tutto e dei servizi pubblici in particolare è più bassa ma il numero di dipendenti pubblici per abitante e il costo unitario del personale è esorbitante, la spesa pubblica per la sanità e il deficit sono fuori controllo, la qualità dei servizi è mediocre. Vale a dire si preferisce favorire l’inefficienza a nuove soluzioni che favoriscano sviluppo produttivo.

In definitiva se ne deduce che mentre l’apparato produttivo è sano, c’è una parte dell’Italia, settoriale e territoriale, che fa di tutto per ostacolarlo con lacci, lacciuoli, burocrazia, infrastrutture di tutti i tipi carenti, clientelismo, inefficienze… Come se vivesse di rendita senza collaborare. Fino a quando la cicala può vivere  di stornelli sulle spalle della formica?