Nella sua recente visita all’Università Roma Tre, papa Francesco, parlando a braccio con gli studenti, ha detto: “Quando non c’è dialogo, è l’inizio della guerra”. E nell’accantonato discorso scritto il Papa ripeteva una triste constatazione: “Stiamo vivendo una guerra mondiale a pezzi”. Sono frasi molto pesanti, che rischiamo di sentirci scivolare nella mente o nel cuore, evitando di prendere atto della loro gravità. “Guerra” è parola che indica qualcosa di indicibilmente tragico e devastante; non dobbiamo nascondercelo o minimizzarlo per colpevole abitudine.
Ci può soccorrere la memoria del conflitto combattuto cent’anni fa dai nostri nonni o bisnonni. Erano partiti – come del resto i coetanei che avrebbero trovato dall’altra parte della trincea – immaginando una facile vittoria e invece parteciparono a una straziante agonia di anni. In molti si sono provati a raccontarla e rileggere alcune di queste pagine, cercando di immedesimarci coi fatti che narrano, ci potrà forse rendere meno superficiali quando parliamo o sentiamo parlare di guerra.
“Una notte udimmo delle grida, come le lancia un uomo che sta soffrendo atrocemente: poi, più nulla. Qualcuno colpito a morte, pensiamo. Dopo un’ora le grida riprendono; stavolta non cessano più. Non più per questa notte, e neppure la notte seguente. Un grido nudo, senza parole, quasi un guaito. Non sappiamo se esca dalla gola di un tedesco o di un francese. Vive da sé, accusa la terra, il cielo. Ci schiacciamo i pugni contro gli orecchi: non vogliamo più udire quel gemito, ma non ci riusciamo, il grido gira come una trottola nelle nostre teste, ci fa sembrare ore i minuti, anni le ore: ad ogni sua nuova vibrazione siamo più appassiti, più grigi. Finalmente abbiamo saputo chi è a gridare: è uno dei nostri, preso nel reticolato. Nessuno lo può salvare: due hanno tentato e sono morti. Il figlio di una madre sconosciuta si difende disperato contro la propria morte. Al diavolo, quanto baccano fa, se continua così a gridare impazziamo tutti. Il terzo giorno la morte gli tura la bocca”.
È il crudele racconto di Ernst Toller, sergente d’artiglieria tedesca sul fronte occidentale, in un libro del 1933. Il critico letterario Paolo Giovannetti lo ha utilizzato durante un convegno di qualche anno fa per introdursi al commento di una poesia di Clemente Rebora. Il quale, sul fronte opposto, narra, in “Viatico”, la medesima straziante scena:
O ferito laggiù nel valloncello,
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri,
tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento,
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio –
Grazie, fratello
La guerra, anche quella a pezzi, anche quella apparentemente incruenta del non dialogo, non è mai un gioco. Essa ci porta sull’orlo della riga bianca che precede l’ultimo terribile verso di Rebora: il ringraziamento al ferito perché, morendo, ha smesso di gridare ed è stato, almeno cosi, fratello.