Il dibattito sull’assetto politico post referendum sembra assumere toni surreali. Pare che andare a elezioni sia diventata la cosa più urgente in questo momento, dimenticandosi però della prospettiva drammatica verso cui il nostro Paese si sta indirizzando a grandi passi, per la prima volta, dalla fine della guerra e della ricostruzione. Forse non ce ne rendiamo conto del tutto, perché siamo per lo più ancora circondati dal benessere e la solidarietà tra generazioni all’interno delle famiglie italiane ha finora tenuto. Ma basta un’occhiata ai dati per capire che la situazione è tutt’altro che rosea.
La condizione giovanile è pesantissima: il tasso di disoccupati nella fascia di età fra i 15 e i 24 anni a dicembre ha superato il 40%, il livello più alto toccato dal giugno 2015. Se è vero che sono aumentati gli occupati dell’1,1% rispetto al dicembre 2015, è anche vero che su un totale di 242mila occupati, 155mila sono a tempo determinato.
I giovani non trovano un posto stabile e le competenze dei nativi digitali sono largamente ignorate da aziende e imprese.
Per vent’anni la nostra classe politica ha espresso personalismi e improvvisazioni sia a destra che a sinistra. Oggi dominano politici e comitati d’affari senza un progetto chiaro e condiviso su come uscire dalla crisi.
Cosa suggerisce questo quadro impietoso? Ci fa ricordare quello che avevano capito i padri costituenti e che è stato ribadito nel recente convegno “Repubblica e Costituzione”: si fa politica per il bene comune e per l’unità del Paese.
Allora persone che partivano da punti di vista politici e ideologici opposti avevano capito che per risollevare un Paese lacerato e distrutto dalla guerra dovevano giungere a un compromesso virtuoso. In questo modo si ottenne la Costituzione. Oggi che l’Italia rischia di scivolare in serie B, chiunque governi o andrà all’opposizione ignora ciò che c’è in gioco: la rinuncia a diritti essenziali, come il lavoro per i giovani, il diritto a casa, assistenza, salute… In questa situazione occorre aprire dialoghi fra le parti e convergere verso provvedimenti condivisi. Non basta la scaltrezza politica. Occorre recuperare tutti qualcosa che viene prima: un atteggiamento di purezza.
Davanti a una situazione che può sembrare irrisolvibile, nelle persone può scattare un sentimento di tristezza, ma la percezione che qualcosa non funzioni, può generare un nuovo impulso verso la costruzione della res publica. Questo sentimento di tristezza è spesso censurato: è meglio urlare, insultare, accusare, lasciarsi andare a reazioni di pancia. Ma l’uomo che prova tristezza più facilmente è colui che prova nostalgia per il benessere di tutti, non opera divisioni, ha una ingenuità positiva che lo porta a compiere gesti di “bellezza disarmata”, come titola il libro di Julián Carrón. Gesti quali: attivarsi spontaneamente per il prossimo, accogliere gli ultimi, ricominciare a fare impresa, riprendere a educare i giovani che nelle scuole vivono situazioni di disagio.
Cosa centra tutto questo con la legge elettorale che la Consulta ha modificato e indicato come utilizzabile?
Come hanno commentato in tanti è una legge che non permette a nessuno, in caso si voti oggi, di vincere le elezioni e di formare un governo. Non c’è partito che, realisticamente, sia in grado di arrivare da solo al 40%, come non esiste al momento alcuna coalizione che possa raggiungere il 51%. Inoltre, si perpetua la tragedia dei capi lista nominati dal partito, non scelti dal popolo per i loro meriti.
Sarebbe un disastro se si votasse oggi come chiedono in tanti. Avremmo davanti anni di ingovernabilità e di lavori parlamentari complicati e inefficaci.
Una tristezza commossa per il declino e l’impoverimento della vita politica chiede che prima di qualunque voto si arrivi a un accordo elettorale serio. Chi per qualsiasi calcolo politico si opponesse a questo disegno sarà responsabile nei confronti, non solo dell’opinione pubblica, ma anche della storia italiana.