Una fabbrica (di lavoro) di nome Industria 4.0

"Industria 4.0" spinge la robotizzazione della manifattura ma apre nuovi circuiti occupazionali a valore aggiunto in un comparto d'eccellenza del Made in Italy. ANTONIO QUAGLIO

Industria 4.0: una scommessa di politica economica da 18 miliardi; l’unico movimento strategico della legge di stabilità 2017, il solo a prova di eurocrati. Ma sarà davvero capace di spingere Pil e occupazione, di produrre “nuovo sviluppo Italiano”?

La risposta giunta ieri dal summit indetto da Ucimu, l’associazione delle imprese produttrici di macchine utensili, è stata molto netta. Il presidente Massimo Carboniero, pochi minuti dopo l’avvio dei lavori, è andato subito al punto: “I benefici fiscali sono molto importanti, ma se ci fermeremo al loro utilizzo nel breve periodo saremo miopi. Industria 4.0 offre a noi imprenditori  dei sistemi per produrre condizioni favorevoli perché sosteniamo nel tempo la competitività nostra e dell’Azienda-Italia calando la digitalizzazione nei nostri processi e nei nostri prodotti. Super-ammortamento e iper-ammortamento sono strumenti efficaci – un investimento può costare il 36% in meno – ma il valore aggunto lo dovremo creare noi, l’obiettivo lo dobbiamo raggiungere noi”.

La politica industriale “4.0” è quella che . nel 2017 – seleziona il merito di poche centinaia di industriali, che producono 8 miliardi di Pil e ne esportano più di 3, si battono in Usa e Cina e si confrontano alla pari con la Germania. Miliardi che valgono doppio, perchè generati dalla tecnologia, dall’innovazione. Il governo ha preso sulla parola il loro modo di vedere la crisi italiana: rilanciamo gli investimenti privati in sistemi produttivi, svecchiando il parco-macchine; creiamo nuovi cyber-distretti fra chi progetta, costruisce e poi segue in remoto l’intero ciclo di vita di una macchina e chi quella macchina deve utilizzare al meglio e al massimo per dare sostanza ai vari Made in Italy.

Di fronte a Carboniero due terzi abbondanti degli associati Ucimu, convenuti a Milano per un faccia a faccia con Stefano Firpo, il direttore generale del Mise, primo collaboratore del ministro Carlo Calenda nella stesura di Industria 4.0. Il tecnocrate tiene il punto fra domande a raffica su commi e tabelle, ma ogni cinque minuti ripete: “La vostra è una sfida culturale, non state cambiando le macchine in fabbrica, Industria 4.0 vince se voi riuscirete a cambiare i vostri modelli d’impresa”.

Prima del botta e risposta operativo, non è mancato il tempo di un brainstorming ai limiti della provocazione, da parte di Roland Berger, il consulente globale di Mise e Ucimu. Un video silenzioso inquadra una selva di robot in azione. E’ la catena di montaggio “4.0” di una grande multinazionale metalmeccanica italiana. “Vedete? Non c’è più alcun umano al lavoro, ma dentro quei robot è probabile ci siano componenti prodotte da qualche associato Ucimi qui in sala”, dice Paolo Massardi, partner Roland Berger. Cattiva notizia per chi ancora spera che l’occupazione (giovanile) in Italia possa ripartire da qualche postazione di lavoro “generica”, alla catena di montaggio. Sfida, invece, e potenziale buona notizia per diplomati di nuovi Its meccatronici o ingegneri assortiti. 

Industria 4.0 ha bisogno di loro, tanti, brillanti, subito. “Connettività” è il nuovo mantra. In fabbrica devono imparare a “lavorare assieme” macchine che non l’hanno fatto finora. Le macchine di una fabbrica devono imparare a controllare le macchine di un’altra fabbrica. Le macchine – tutte – devono imparare a fornire agli engineer il massimo dei dati possibili e gli engineer devono imparare a usarli quelle miniere di dati nel modo migliore: per alzare l’efficienza delle macchine esistenti, per disegnarne di nuove e più evolute. A lot to do: c’è un sacco da fare, dentro e attorno a Industria 4.0. E c’è un sacco di lavoro: in Italia.

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