C’è un film russo, ancora in fase di ultimazione (uscirà a marzo), che già ha fatto parlare di sé le cronache, comprese quelle politiche, suscitando furiose discussioni. È il film Mathilda che narra le vicende amorose della famosa ballerina Mathilda Kšesinskaja con vari membri della famiglia imperiale russa, compreso l’ultimo zar Nicola II. La vicenda storica è almeno in parte reale ed era già ampiamente nota senza aver scandalizzato nessuno.
Del film finora si conosce solo il trailer, due minuti e nove secondi da cui si intravede più che un film storico un drammone sentimentale con qualche sprazzo esoterico, sia pure girato — come spiega l’ufficio stampa della produzione — con inusitata larghezza di mezzi e con meticolose ricostruzioni d’ambiente, dai costumi d’epoca sino ai gioielli della corona e alle decorazioni militari. Una precisione filologica che poi è vanificata dalla libera mescolanza (riconosciuta dal regista stesso) di fatti reali e invenzioni.
Ma attorno a quel poco di concreto che c’è sul piatto, si sono imbastite polemiche talmente vivaci che a qualcuno è venuto persino il sospetto che si tratti di una ben orchestrata campagna promozionale. Se non fosse che in merito si è dovuto esprimere persino il Patriarcato di Mosca, nella persona del vescovo Tichon Ševkunov, capo del Consiglio patriarcale per la cultura.
Quello che offende gli ortodossi zelanti è vedere il giovane Nicola dipinto come un “adultero lussurioso” che intrattiene un legame sentimentale con una ballerina mentre è già sposato con Alessandra. Qui si chiama in causa anche il sacrilegio, poiché abbiamo a che fare con un santo canonizzato dalla Chiesa. In risposta alcuni gruppi ortodossi come “Croce zarista” hanno fatto un esposto alla Procura della Federazione chiedendo l’interruzione delle riprese del film perché storicamente falso, antirusso e antireligioso. La Procura ha fatto sapere di non aver trovato sostanza di reato. L’iniziativa degli zelatori ortodossi si sarebbe squalificata da sola come assurda se non fosse stata raccolta e rilanciata da qualcuno “più realista del re”: la giovane deputata Natal’ja Poklonskaja ha solertemente presentato una nuova denuncia alla Procura, chiedendo di verificare se nella sceneggiatura non vi siano per caso gli estremi dell'”offesa ai sentimenti dei credenti”.
La reazione dei cineasti non si è fatta attendere: nei primi giorni di febbraio hanno diffuso una lettera aperta in difesa del regista e del film. Sono intervenuti nella diatriba anche personaggi pubblici, i rappresentanti della casa Romanov, il ministero della Cultura, il portavoce del presidente. Anche la Chiesa, come abbiamo detto, si è espressa tramite il vescovo Tichon che, dopo aver dato un giudizio negativo sul film, ha aggiunto con molto realismo che “sarebbe una scelta assolutamente sbagliata” chiederne il ritiro, ma che tuttavia bisogna spiegare al pubblico dove sta la verità, e sapere che probabilmente “ci saranno gruppi di credenti e singoli, anche ortodossi, che chiederanno il ritiro”. E quasi rispondendo all’invito, sono arrivate al ministero della Cultura ventimila firme contro la messa in circolazione del film.
Notare: i sentimenti di tutti sono feriti, ma il film nessuno ancora lo ha visto.
Così l’ondata emotiva, irrazionale si è propagata, convincendo tutti, da una parte e dall’altra, di una verità che non esiste ma è solo supposta, prevista, “sentita” e la cui sensazione offende e scatena realissime reazioni e azioni giuridiche. Il film in quanto tale, in realtà, interessa poco a tutti; in compenso tutti hanno messo in campo gli svariati artifici dell’indignazione e dello schieramento: chi a favore di una verità dei fatti che sarebbe offesa, chi a favore di una libertà di giudizio che sarebbe a sua volta offesa: ma la verità e la libertà di cui tutti parlano esistono solo nelle sensazioni delle varie parti che si scontrano.
Sarebbe un cattivo teatro dell’assurdo di cui non meriterebbe parlare se non fosse che mostra a livello planetario il fascino perverso di quella che oggi in Occidente si è cominciato a chiamare “post verità”. Chi e quando ha cominciato a mentire o a violare la libertà altrui non lo sappiamo e ormai non lo sapremo più; e se il film non si facesse non sapremmo più neppure di cosa stiamo parlando: questa storia, come la storia del Grande Fratello, è “un palinsesto grattato fino a non recare nessuna traccia della scrittura antica e quindi riscritto di nuovo tante volte quante si sarebbe reso necessario. In nessun caso sarebbe stato possibile, una volta che il fatto era stato commesso, provare che aveva avuto luogo una qualche falsificazione”.
E così, tra tutte queste sensazioni (o falsificazioni come le chiama più giustamente Orwell), forse una cosa sola resta: che prima o poi varrà la pena tornare a fare i conti con la realtà.