Si tratta dello stanziamento più rilevante mai messo a disposizione da un governo per progetti urbani: 500 milioni di euro subito, 1600 a breve. Pochi giorni fa il premier Gentiloni e i sindaci di 24 città capoluogo hanno firmato i protocolli di intesa del Piano periferie 2016, pensato ai tempi del Governo Renzi, e adesso realtà. Ne fanno parte anche cinque città metropolitane (Roma, Milano, Firenze, Bari e Napoli), qualificatesi tramite un apposito bando di concorso che ha premiato i progetti più innovativi.
I progetti sono sia di edilizia (scuole, piazze, parchi, mobilità, case popolari) sia di inclusione sociale, come servizi per l’abitare, borse lavoro, inserimento lavorativo delle fasce più deboli, spazi per la cultura e lo sport, interventi sugli edifici scolastici. Ogni città declina questo nel modo che ritiene più opportuno.
Ma di cosa hanno davvero bisogno le periferie delle nostre città? Per rispondere bisogna farsi aiutare dai grandi cantautori italiani che ci hanno raccontato la periferia del dopoguerra: Baggio, Rogoredo e l’Idroscalo di Enzo Jannacci; il Giambellino di Giorgio Gaber; la via Gluck di Adriano Celentano; le borgate di Roma di Franco Califano e Edoardo Vianello; il campetto di calcio di periferia di Francesco De Gregori. Cosa erano questi luoghi nei primi decenni del dopoguerra? Posti poveri e marginali, ma luoghi lieti dove ferveva la vita, dove c’era “gente tranquilla che lavorava”, che era felice perché “inseguiva il suo sogno d’amore” e poteva dire “per ora ce stai tu, er resto ariverà” e “stamo mejo noi che nun magnamo mai”. Gente che aveva amici fedeli che arrivavano a dirti che eri “un mago” e, dove nel campetto di calcio, potevi incontrare Nino, uno che “cammina che sembra un uomo con le scarpette di gomma dura”.
Una mitologia romantica? No, l’esperienza faticosa ma affascinante di molti, come la mia. Cresciuto nella periferia prima di arrivare a Baggio, vicino a via Forze Armate, in quella via Tommaso Gulli dove c’erano solo la grande caserma Perrucchetti da dove la sera sciamavano nel quartiere i tanti coscritti, la chiesa e l’oratorio, il 45 dove abitavo, il palazzone popolare di fronte, al 60, la fabbrica del dentifricio Durbans, la scuola delle suore, il cinema Adriano, di terza categoria e tanti prati dove si giocava a pallone, si scovavano le rane, si andava a caccia di orbettini come fossimo stati in aperta campagna.
A poco a poco questo mondo è scomparso. Sono arrivate colate di cemento, brutti palazzi, presto abbandonati a se stessi senza adeguata manutenzione, si è puntato sui grandi e anonimi centri commerciali, luoghi di dispersione e di aggregazione solo apparente. In questo modo uno a uno hanno chiuso i negozietti, sono stati estirpati i luoghi di incontro, i cinema di periferia, le sedi delle cooperative, gli spazi per gli anziani, i cinema di quartiere, il dopo scuola, le cooperative alimentari.
Anche zone di grande espansione urbana, come quella dell’attuale viale Argonne a Milano costruita negli anni 30 e 50 con in mente disegni inclusivi ben precisi, cortili interni dotati di spazio verde, asili nido, anche lavanderie comuni, sono diventati anonimi agglomerati di cemento. La gente ha cominciato a considerare la periferia come un luogo da cui fuggire, alla vita è subentrata la paura e la tristezza: “La mia gente muore e nessuno se ne accorge, io sto a guardare fuori, fuori che piove e di questo morire non ne voglio capire”.
Non c’è posto come la periferia che abbia subìto in modo così massiccio quella omologazione consumista che faceva così soffrire Pasolini quando diceva, nei primi anni sessanta, “sono cominciate a scomparire le lucciole”. Un paio di anni fa Adriano Celentano, davanti alla proposta del Comune di Milano di inserire via Gluck fra le zone della città da tutelare con vincolo paesaggistico, commentò giustamente che non aveva senso perché la strada immortalata nella sua omonima canzone era oggi “una delle vie più brutte d’Italia”.
Certo, le case erano e restano una necessità primaria: ma perché imbruttire quei quartieri con costruzioni che dimostrano qualunque mancanza di desiderio di bellezza? Era davvero impossibile resistere alla speculazione edilizia, ai guadagni della politica ottenuti con il cambiamento delle destinazioni d’uso, senza verde e senza servizi e spazi sociali?
Ben vengano allora i soldi e i piani per la riqualificazione delle periferie, ma ricordando che non sono i milioni di euro e i progetti costruiti a tavolino ciò che risolve magicamente tutto.
Nelle periferie vivono i giovani che hanno fame di crescere e costruire un futuro. Sono il posto dove si mischiano razze e culture differenti e per questo possono diventare un luogo di scambio e arricchimento. Da sempre ci si muove di lì per andare “in centro”, e da qui poi è più bello tornare a casa in periferia. Perché dalla periferia, non dal centro, la realtà si vede meglio, come ha detto papa Francesco che il 25 marzo durante la sua visita a Milano si recherà anche alle “case bianche” di via Salomone.
Allora i soldi devono essere spesi perché le biodiversità umane che qui vivono (gruppi, associazioni, parrocchie, movimenti, strutture sociali e politiche, aggregazioni amicali) possano avere luoghi e strumenti per costruire un tessuto sociale solidale condiviso per il bene di tutti. C’è una bellezza nascosta che è possibile recuperare costruendo esempi di condivisione, accoglienza, lavoro, cultura, eliminando la barriera tra “la città dei ricchi” e quella “degli emarginati”. Non vogliamo che prendano piede qui da noi le banlieue parigine che hanno dimostrato il fallimento di una concezione umana e politica basata sulla separazione e non sull’inclusione.
Far uscire le periferie dal degrado significa riconoscere e supportare chi non si è fatto omologare, chi non ha perduto desiderio, fede e appartenenze ideali. C’è gente che quando canta “come è bella la città” lo può fare senza sarcasmo. Ripartiamo da lì.