La moneta buona non lascia mai spazio alla moneta cattiva: neppure se quest’ultima si fregia di un conio sovrano, vero o supposto. La saggezza economica popolare è fondata sull’esperienza e confermata dalla teoria.
Un paese in cui circolano più monete è classicamente un paese poco solido, poco stabile, poco sviluppato, non da ultimo poco sovrano (ad esempio l’Italia nell’immediato secondo dopoguerra) E’ in un paese del terzo/quarto mondo contemporaneo che tassisti, albergatori o negozianti sollecitano pagamenti in dollari o euro – le monete degli altri – in luogo della loro moneta nazionale. E se per caso in quel paese c’è qualche impresa esportatrice cercherà di farsi pagare in valuta estera, trattenendo gli incassi all’estero. Anche se non hanno studiato economia, tutti hanno ben chiaro come sia fatta una “moneta buona”, a quali funzioni assolva: misurare in modo affidabile i prezzi di beni e servizi; conservare e trasmettere il valore economico nel tempo e nello spazio (proteggere il risparmio e confrontarsi efficacemente con altre valute nel commercio internazionale).
Senza riandare al citatissmo caso della Germania di Weimar, in Turchia ancora nel 2001 circolavano verdoni-fake da 20 milioni di lire. E’ dal 2005 che la “nuova lira” è stampata in banconote da 10, 20, 50, 100 lire ed ha mantenuto un cambio in oscillazione stabile rispetto all’euro. praticamente fino al colpo di stato dello scorso autunno. La lira turca è diventata ed è rimasta a E’ rimasta a lungo una “moneta buona”: fino a che il sistema-Paese ha tenuto la rotta dell’avvicinamento alla Ue. Viceversa, mano a mano che la regime di Erdogan ha frenato sull’europeizzazione fino al colpo di stato dello scorso autunno, la lira ha subito perso stabilità e credibilità”. Il nuovo dittatore di Ankara potrà ora cercare di ovviare alle fratture con l’Europa stampando lire per sostenere l’economia con stimoli “sovranisti”, ma sarà allora che i tassisti di Istanbul si rimetteranno a chiedere euro. Sarà allora che molti turchi ritireranno i loro risparmi in banca, magari per lasciare il paese: creando crisi di liquidità e credito,di sottoscrizione di titoli del debito pubblico, di consumi e investimenti interni. Sarà allora che alcune aziende – ad esempio controllate da gruppi esteri – proveranno a corrispondere ancora retribuzioni agganciate all’euro e altre invece non potranno. La “moneta a due velocità” è – nei fatti – una spirale causa-effetto interna a situazioni di crisi progressiva, non la soluzione.
L’euro – che ha appena compiuto 18 anni di vita effettiva – si è conquistato rapidamente il ruolo di moneta di riserva internazionale. Per paradosso la sua forza non è stata intaccata neppure quando la sua stessa banca centrale ha avviato una politica monetaria espansiva per cercare di rianimare l’economia e contrastare le tendenze deflattive. Una moneta “buonissima” che – certo – costringe un paese-membro come l’Italia a tirare la cinghia della finanza pubblica e a veder penalizzato un po’ l’export. Ma è una moneta che i tassisti di Roma non si sognerebbero mai di rifiutare e che semmai conservano gelosamente: non la spendono in attesa di tempi migliori, dando per scontato che sia un ottimo strumento di conservazione del loro patrimonio.
Chi e come può pensare di affiancare l’euro in Italia con una riedizione dei mini-assegni degli anni 70? Con qualcosa di simile a una social card di serie B? Con bitcoin artigianali, non certo quelli tecnologici e futuribili prodotti nella Silicon Valley e dintorni?