Il sogno di un “mondo mai visto”

Cent'anni fa cadeva il regime zarista e la rivoluzione bolscevica andava al potere. Fu, anche se per poco, l'occasione per la Chiesa ortodossa di tornare alle origini. GIOVANNA PARRAVICINI

Il 15 marzo di cent’anni fa lo zar Nicola II abdicava al trono per sé e per l’erede, lo zarevic Aleksej, e in tal modo la Russia entrava definitivamente nel turbine degli eventi rivoluzionari. Eppure, al caos e alla violenza in quei mesi si mescolarono anche grandi speranze legate non semplicemente alle riforme politiche e sociali, ma all’attesa di un rinnovamento profondo della vita, a una catarsi che coinvolgeva l’universo, insieme agli uomini, “alla creazione immediata di un mondo mai visto”, come avrebbe annotato il giovane Pasternak: “… sembrava che insieme agli uomini comiziassero e concionassero le strade, gli alberi e le stelle. L’aria da un capo all’altro era preda di un’ispirazione ardente lunga migliaia di verste e sembrava una persona con un nome, sembrava un essere animato e chiaroveggente… C’era una sensazione di quotidianità che si constatava a ogni passo e nello stesso tempo si trasformava in storia, un senso dell’eternità che era scesa sulla terra e capitava ovunque sotto gli occhi…”.

Gli fa eco la celebre pianista Marija Judina, allora diciassettenne: “Ci sentivamo le ali ai piedi, ci nutrivamo di gratuità, povertà, del rombo lontano della guerra… Non ci interessava la tranquillità, non ci importava sistemarci o mettere da parte qualcosa; ci bastava un po’ di pesce secco e focacce di bucce di patate, scarpe di corda e vestiti lisi… ci alzavamo e ci coricavamo con la poesia — chi con la poesia, chi con la musica…”. Nei giorni del febbraio 1917 la Judina scappa di casa per lavorare indefessamente in un centro di aiuto ai dimostranti, curando i feriti e distribuendo il cibo ai militanti, per lo stesso anelito di rinnovamento.

La componente religiosa, ideale della spinta rivoluzionaria è innegabile. Così come è innegabile che nell’arco di pochi mesi la Judina — e con lei moltissimi giovani e uomini di cultura — avrebbe compreso che il vero “impulso rivoluzionario” non si lasciava rinchiudere nella lotta politica, e che il “mondo mai visto” che Pasternak sognava esisteva già: si trovava proprio in quella Chiesa che fino a poco tempo prima l’intelligencija aveva guardato con disprezzo per il suo formalismo e i compromessi con il potere, e che ora, purificata nel crogiuolo delle persecuzioni, cominciava a lasciar trasparire la Presenza di cui realmente viveva. 

Arte, vita, fede per la prima volta dopo decenni si intrecciavano e si univano, cadeva la fatale divisione tra la “Russia credente e la Russia pensante” di cui la personalità di Tolstoj era forse l’emblema più imponente. E Pasternak poteva scrivere: “…l’arte si interessa della vita nel momento in cui è attraversata da un raggio di forza… da una voce, una presenza”.

Una Presenza vivente, che non permette alle simpatie rivoluzionarie della giovane generazione di spegnersi nello scetticismo e nell’orrore del bagno di sangue a cui la Russia avrebbe assistito di lì a poco, ma le trasfigura — e il pullulare negli anni 20 di gruppi clandestini, circoli e fraternità ne è la dimostrazione — in una nuova coscienza cristiana. 

Come ricorda nelle sue memorie Sergej Fudel’, uno di questi ragazzi (arrestato nel 1922, la sua vita sarà un’odissea attraverso i campi del Gulag): “Comincia la primavera — ci dicevamo l’un l’altro. — La Chiesa è proprio quest’eterna primavera… Ci appariva chiaro che la lotta per la croce non era solo una lotta per la salvezza personale, e neppure per la salvezza della propria ragione individuale, ma una lotta per l’amata terra degli uomini, salvata e santificata dalla grazia”. Una dimensione sociale della fede cristiana — questa di cui parla Fudel’ — che va paradossalmente di pari passo con l’estromissione della Chiesa in quanto istituzione dalla vita pubblica e dai favori del potere, e si affida interamente alla responsabilità e al “rischio” della singola persona.

I mesi tra il febbraio e l’ottobre 1917, grazie anche alle nuove libertà offerte dal Governo provvisorio democratico, rappresentarono certamente un’occasione provvidenziale per la Chiesa e la società russa: si pensi soltanto alla convocazione del Concilio ortodosso, paragonabile al Vaticano II per la vastità delle problematiche poste (riforma della lingua liturgica, della parrocchia, della formazione del clero e l’educazione, della concezione missionaria, e così via), e — dopo una vacanza di due secoli — all’elezione del patriarca, che sarebbe stato un insostituibile punto di riferimento e un’autorità morale nelle persecuzioni. 

Ma il segreto della rinascita religiosa testimoniata nell’arco in epoca sovietica dai martiri e confessori della fede, e in seguito dalla letteratura del samizdat e dal dissenso, non consiste certo nel progetto riorganizzativo della Chiesa che il Concilio si proponeva di realizzare (esso, del resto, si afflosciò rapidamente sotto i colpi dei bolscevichi, e per triste ironia della sorte è divenuto lettera morta fino ai nostri giorni). Il “mondo mai visto” si fece presente da subito, nello spirito di quanti, nel fuoco della rivoluzione e della guerra civile, avevano incontrato la strana libertà, la “bellezza crocifissa” di una Chiesa inerme, umiliata esteriormente, spogliata di tutti i suoi privilegi e viva solo della sua verità: questo nei decenni sovietici sarebbe stato il locum segreto della vita della persona e della sua irriducibile resistenza a ogni riduzione ideologica.

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