Arrivano a gruppetti o da soli. Sono persone di ogni età, ragazzi e anziani, si tolgono le scarpe e si muovono veloci sui grandi tappeti per disporsi ordinatamente in fila uno di fianco all’altro, davanti a un portale decorato. Sembra l’ingresso verso un mondo lontano e antico. In realtà questo “mondo” vive da più di qualche decennio nella mia città e, mi accorgo solo ora, di non conoscerlo affatto.
La direzione verso cui si volgono ovviamente è quella della Mecca.
Sono le otto di sera, ora in cui ti aspetti che persone dai volti scavati, che normalmente fanno lavori faticosi siano a casa a riposarsi. Invece sono lì per l’ultima preghiera della giornata e non rinunciano a mettere nelle mani di Dio le ore trascorse e quelle che verranno. Io, insieme ad altri ospiti, faccio lo stesso e mi sento più leggero. Mi sembra, nel guardarli, che anche per loro sia così. Tra una invocazione dell’Imam e la risposta corale dei fedeli, l’atmosfera è intensa, il silenzio è assoluto. Quando la preghiera finisce, senza perdere un secondo, si alzano e alcuni vanno a disporre le seggiole per i numerosi ospiti che di lì a poco arriveranno a sentirci dialogare su “Le sfide dell’educazione in una società plurale”.
E’ accaduto due giorni fa alla Casa della Cultura musulmana di via Padova a Milano, luogo di aggregazione in cui la comunità islamica si ritrova a pregare, ma anche a festeggiare, far fare i compiti ai bambini e dibattere in incontri culturali come questo.
E’ un capannone di qualche ex fabbrica ripulito e addobbato con cura. Sulle pareti ci sono titoli di versetti del Corano. Ma il luogo è evidentemente inadeguato ad ospitare quella vivacità e varietà di iniziative.
Viene da pensare che umiliazione debba essere per persone che sono nate qui o che vi risiedono da decenni, come Benaissa Bounegab il presidente del Centro, in Italia dal 1975, non avere uno spazio dedicato alla preghiera, quasi fossero cittadini di serie B senza diritti, da tenere nascosti dalle “persone per bene”. Certo, sono costretti a subire tanta pubblicità negativa, ma la realtà quotidiana di queste persone però parla d’altro. Non c’è da stupirsi che questa sorta di segregazione abbia prodotto altrove tanta rabbia e cadute nel radicalismo fondamentalista.
Non è il caso della Casa della Cultura musulmana, da più di vent’anni impegnata a costruire integrazione e rapporti di solidarietà con le tante diverse etnie che popolano questa zona di Milano, ingiustamente ricordata più per alcuni episodi di violenza che per questa oasi di umanità.
E’ attraverso gli amici del Banco Alimentare che ho conosciuto Mahmoud Asfa, ingegnere giordano, ed ex presidente della Casa della Cultura, che mi ha invitato a parlare di educazione insieme all’attuale presidente Bounegab. E’ bastato che qualche mese fa un loro amico, portasse lì alcuni volontari del Banco, che ne è nata subito una stima reciproca, tanto che l’Imam non solo ha invitato i suoi fedeli a prendere parte alla giornata della Colletta alimentare, ma anche a darsi disponibili tutto l’anno per fare i volontari.
La stessa cosa è successa a Portofranco, centro di aiuto allo studio frequentato da circa 1700 studenti di cui 500 stranieri, dove i musulmani di questa comunità, invitati, si sono recati a vedere di cosa si trattava. Una cena insieme, e anche qui nascono spontanee amicizia e collaborazione.
L’altra sera si è parlato di quanto siano importanti ambiti di educazione al bene comune, perché solo dai giovani si può costruire una società pluralista, come ha ricordato Bounegab, per non ripetere gli errori della Francia dove si è scelta la strada dei ghetti di periferia in cui vige la legge del più forte e l’abbandono, e dove i giovani sono lasciati da soli.
“Quale sia invece la strada dell’integrazione scelta dall’Italia, dopo quarant’anni che vivo qui, ancora non l’ho capito” ha scherzato, facendo comunque capire il grave ritardo della nostra politica al riguardo. Eppure, l’esperienza meneghina mostra che un modello c’è: quello della collaborazione “dal basso” tra comunità in cui si viene educati al bene, al bello, al giusto, al vero.
Non è più tempo di divisioni, o di pensare alle nostre città come luoghi popolati da cittadini italiani e “stranieri”: la differenza è solo tra chi lavora e si opera per una costruzione comune e chi non lo fa. Milano è il punto più rappresentativo di un paese che è oggetto di una forte spinta al cambiamento, anche se la politica fa di tutto per ignorarlo e per lasciare che ci si guardi da lontano, in nome di una identità astratta e ideologica. I numeri, ricordati da Giorgio Paolucci durante l’incontro, parlano chiaro: a Milano vivono 290mila extra comunitari, il 20% della cittadinanza, contro il 9% del resto d’Italia; nel 2016, 8mila di essi hanno ottenuto la cittadinanza italiana; un bambino su quattro nasce da coppie straniere.
Mi è capitato più volte di incontrare ragazzi musulmani di seconda generazione, ad esempio in università. In particolare una di loro, Nibras, una studentessa giordana di 22 anni nata a Milano, mi ha dato modo di vedere come sta cambiando la nostra società. E questo mi ha dato fiducia. Legata alla sua identità musulmana (“Tenere il velo è una decisione mia personale”) e italiana insieme, è intervenuta durante l’incontro dell’altra sera parlando del limbo in cui si trovano quelli come lei: “Facilmente noi figli di due culture non riusciamo a identificarci a fondo né in una né nell’altra. Questa situazione ci porta a due tipi di possibilità: sceglierne una o rifiutarle entrambe. Io ho scelto di viverle tutte e due: sono milanese e sono islamica, ma l’etica religiosa che mi hanno insegnato i miei genitori mi fa dire che io dipendo solo da Dio e per questo mi sento totalmente libera e delle due culture prendo il bene di ciascuna”.
Un altro ragazzo anche lui ventenne, nato in Egitto e giunto in Italia alcuni anni fa e che oggi frequenta l’università Cattolica, ha raccontato di come il primo luogo in cui ha trovato accoglienza sia stata la Casa della Carità di Crescenzago, in mezzo a gente di diverse nazionalità: “In quella casa di immigrati di tutto il mondo ho capito cosa sia l’accoglienza”. Adesso in Cattolica insieme ad altri ragazzi musulmani ha dato vita a un gruppo aperto a tutti, “Shared with all people” (Condividere con tutte le persone). “Il punto” ha aggiunto “è trovare il bello nelle nostre diversità invece di averne paura, è necessaria interazione non integrazione tra culture e religioni diverse”.
Stessa testimonianza ha dato un altro giovane egiziano, che a Portofranco ha trovato una amicizia per la vita, conservando la sua fede islamica, anzi riscoprendola.
Testimonianze queste che hanno dato ragione più di tanti discorsi alla valenza educativa di gesti concreti. Questa la sfida per una società che sta cambiando, volenti o nolenti.
In questo senso via Padova non è più periferia, ma diventa la prima via dove diverse etnie possono imparare a vivere insieme. Anche per questo è venuto finalmente il momento di riconoscere il diritto dei musulmani ad avere un loro luogo dignitoso di preghiera come accade per tutti gli italiani di tutte le altre confessioni religiose.